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Libri

Varietà e arbitrio nell’intitolazione dei libri

Si parla troppo poco dei titoli dei libri?

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Libri, non più non meno di esseri viventi

Libri, ma soprattutto titoli di libri. Cosa c’è di più bello se non osservarne da lontano le forme e i colori di un libro, avvicinarsi pian pianino, afferrarlo, stringerlo tra le mani, presentarsi, conoscerlo e viverlo, come un grande amore, un amico fraterno, un padre? Quando leggiamo un libro dobbiamo essere coscienti che si tratta di un essere vivente, di una persona di carta. Respira mentre lo sfogliamo, sogna quando lo riponiamo sullo scaffale, prova dolore se cade dalla libreria, sente il solletico se lo grattiamo sulla costa. E per di più possiede un’anima, e soprattutto un nome, come quello che si dà ad ogni bambino appena nato.

La libera e selvaggia intitolazione dei libri

Entrando oggi in una libreria e aggirandosi tra i banchi sopra i quali sono esposti libri d’ogni genere, freschi di produzione recente, ristampati, tradotti da edizioni antiche o straniere, alla lettura dei soli titoli si potrebbe provare l’impressione di una varietà inesauribile, simile a quella, per esempio, della musica. E ho adoperato questo paragone perché avevo bisogno di rappresentare una possibilità combinatoria assolutamente libera, se si accetta il rischio di dissonanze e di effetti antiestetici, che infatti si accettano nell’intitolazione dei libri.

Un’infinità di titoli, ma nessuna regola

La varietà infinita e l’incontenibile arbitrarietà nell’intitolazione delle opere sembrano, secondo una giustificata riflessione, derivate anzitutto da mancanza di regole. Infatti, prescindendo naturalmente da ciò che di proposito, per dimenticanza o per mera indifferenza dell’autore può nascere senza alcun titolo (ma si tratta d’una produzione antica o, se moderna, limitatissima e forse talvolta lasciata studiatamente così), mai c’è stata una regola retorica o almeno una consuetudine osservata, che indirizzasse il criterio e la scelta. Anche se ad un certo momento cronologico, almeno nella produzione letteraria, è certo che il titolo diventa parte non trascurabile dell’opera, e che quindi, nella scelta, è credibile che ogni scrittore rifletta con qualche cura sul nome da dare alla sua opera… Persino chi fosse convinto che un titolo vale indipendentemente da ciò che significa e che un bel titolo non salva un’opera brutta, e viceversa.

Il Dizionario letterario delle Opere di Bompiani

Tuttavia, data come del tutto scontata l’esigenza che i titoli corrispondano ai relativi contenuti, e forse tenuto anche conto dell’arbitrarietà di moltissimi, anzi della massima parte di essi, nemmeno una parola fu spesa in proposito per introdurre i lettori alla ricchissima materia del Dizionario letterario delle Opere. Opera che l’editore Bompiani pubblicò a partire dal 1947, in tempi in cui non esistevano in Italia interessi sociologici e semiologici, tali da additare come oggetto di studio anche i “dintorni del testo” e tra questi i titoli.

Il qual Dizionario, mentre è, a nostra conoscenza, l’unico strumento per una riflessione più agevole sulla intitolazione nel campo letterario-filosofico e, in qualche misura, musicale, può essere altresì esso stesso prova della varietà dei titoli e, grazie all’ordine di essi (perché è facile la riflessione che a un sol titolo possono corrispondere due o più o molte opere di diverso contenuto o di varia interpretazione), mezzo di confronto tra gli originali e la traduzione italiana (o eventualmente in altra lingua).

Titoli di libri come richiamo di potenziali lettori

Eppure, come introduzione alla materia bastava almeno ricordare che, in una certa misura e per determinate opere, nell’antichità greco-romana era stata conosciuta l’esigenza d’una scelta o d’una indicazione; e che la maggiore attenzione al titolo nasce da quando il libro è divenuto un oggetto commerciale e la sua vendita deve compensare l’editore. Questo senza escludere che la sua diffusione può essere connessa con fini non disinteressatamente culturali, ma anche religiosi, politici e quindi propagandistici. Dunque, il titolo diviene un mezzo di richiamo, comincia a campeggiare al centro del frontespizio (e non è più relegato nel colophon) e si sostituisce a quella embrionale pubblicità editoriale che si trova negli “incunaboli” (primi libri a stampa come se questa fosse stata, dapprima, in culla), fondata sulla relativa modicità del prezzo di vendita, nitidità dei caratteri e correttezza del testo.

Il caso del “Trattato utilissimo del beneficio di Giesù Cristo crocifisso”

 Ma se fino ad un certo tempo è bastato un aggettivo o una frase indicante utilità e vantaggio nella lettura, successivamente e soprattutto poi nell’epoca attuale, si richiedono espedienti molto sofisticati. Oggi la diffusione commerciale di un libro è affidata ad altri mezzi di persuasione, e forse qualunque titolo cede all’efficacia di una presentazione mondana o alla raccomandazione, per così dire, di recensioni pilotate o semplicemente benevole e ovviamente su giornali molto venduti. Ma riflettiamo sul passato e consideriamo come, per esempio in una società assai più ristretta della nostra e attenta e curiosa per particolari problemi, bastava un titolo come Trattato utilissimo del beneficio di Giesù Cristo crocifisso di Benedetto Fontanini, per convincere alla lettura migliaia di persone di ogni livello sociale e intellettuale.

Non parliamo poi del rischio che poi quella lettura comportò, allorquando l’opuscolo fu tacciato di eterodossia e condannato dalla Chiesa. Stiamo dicendo del più famoso libro della Riforma religiosa italiana (cioè di quel che di riforma protestante c’è stato in Italia nel Cinquecento). Tanto stampato, dal 1543, venduto, tradotto in varie lingue e passato di mano in mano, quanto, pochi anni dopo, perseguitato, bruciato nei pubblici roghi e quasi completamente distrutto, tranne pochissime copie. A proposito del suo titolo, vogliamo avvertire che il sintagma Beneficium Christi pare che fosse originariamente del Riformatore tedesco Filippo Melantone, ma sia apparso in Italia per la prima volta nell’Orlandino di Teofilo Folengo, nel 1526. Doveva allora avere un’immensa efficacia, suscitando l’idea della giustificazione per sola fede.

Titoli di libri e l’influenza delle mode

In seguito i titoli, ricercati con estro bizzarro o polemico, certamente contribuirono ad accattivare il lettore, quando si tratta naturalmente di una produzione non del tutto professionale, non scientifica, non insomma tale che si raccomandi da sé. Anche perché, altrimenti, il titolo dovrà sfruttare una parola del momento, secondo la moda. Se va di moda il romanzo cavalleresco, i titoli devono insistere sui particolari avventurosi. Vediamo un esempio di siffatta intitolazione nell’edizione italiana del Don Quijote, stampata a Venezia nel 1622: 

L’ingegnoso Cittadino DON CHISCIOTTE DELLA MANCIA composto da Michel de Cervantes Saavedra / Et hora nuovamente tradotto con fedeltà e chiarezza / di Spagnuolo in Italiano. Da Lorenzo Franciosini Fiorentino. / Opera gustosissima, e di grandissimo trattenimento, a chi è vago / d’impiegar l’ozio in legger battaglie, disfide, incontri amorosi / biglietti e inaudite prodezze di Cavalieri erranti. Con una tavola ordinatissima per trovar facilmente a ogni capitolo gli / stravaganti successi e lheroiche bravure di questo gran Cavaliero.

Si noterà poi in altre opere la ricorrenza di metafore culturali (tesoro, giardino, labirinto, teatro ecc), e anche, successivamente, la preferenza di titoli di suggestione “romantica”, e infine – nel nostro tempo – del gusto neo-barocco e talvolta anche triviale e pornografico (salva naturalmente la bellezza e la decenza di tantissimi titoli vigenti). Del resto, non si esclude che l’accorgimento divenga un fatto di convenienza commerciale, essendo ormai evidente che anche un titolo bene indovinato possa contribuire al “fato” d’un libro (si ricordi il detto: habent sua fata libelli) e quindi alla sua fortuna editoriale. Ecco perché gli editori possono essere interessati al titolo almeno quanto l’autore. Questo, salvo che non ostenti indifferenza per l’uno o per l’altro, può essere anzi perplesso fino all’inverosimile nella ricerca.

La riuscita dei Fiori del male di Baudelaire

Gérard Genette, che su questa materia ha scritto un’opera fondamentale, ricchissima di osservazioni si sofferma parecchio sulle perplessità degli autori, ricordando Les fleurs du mal, che Baudelaire inizialmente aveva intitolato (o voleva intitolare) Les lesbiennes, oppure Les limbesLucien Leuwen di Stendhal, titolo incerto tra L’orange de Malte, Le télégraphe, L’Amarante et le Noir, Les bois de Prémol, Le chasseur vert, Le Rouge et le Blanc. Ma al di sopra di tutti gli scrittori perplessi stanno Honoré de Balzac e Émile Zola. In quanto poi all’editore, la sua partecipazione alla scelta del titolo è anche più interessante.

Il titolo Armance : ou quelques scènes d’un salon de Paris en 1827 non era precisamente quello voluto dall’autore, Stendhal, ma gli fu imposto dall’editore, perché (dice lo stesso autore in una nota, riferendo il parere di quello) “senza enfasi, senza ciarlatanismo, non si riesce a vendere niente“. Anche Zola dovette cedere al suo editore per Le ventre de Paris, che egli avrebbe voluto fosse solamente Le ventre, così giudicato «più vasto ed energico». Infine, in tempi meno remoti, La nausée di Sartre fu così intitolata per volontà dell’editore Gallimard, mentre l’autore avrebbe preferito come titolo: Melancholia.

Le confessioni di un italiano… o Le confessioni di un ottuagenario

Dalla parte italiana potremmo ricordare altrettante aneddotiche perplessità di autori e intromissioni di editori, specialmente nel campo del romanzo, dove il ruolo commerciale del titolo ha un peso che nelle opere scientifiche viene quasi ignorato. Ma, o per la nostra limitata disponibilità, o perché obiettivamente i nostri scrittori hanno avuto un abito di maggiore decisione (Manzoni, così incerto sulla forma del suo romanzo, mutò presto la scelta da Fermo e Lucia Promessi sposi), non credo che potremmo arrivare ai record di amletica incertezza annoverati nella letteratura francese.

Per quel che concerne le variazioni editoriali, notiamo quella postuma del titolo che Ippolito Nievo aveva dato al suo famoso romanzo, nell’altro che ha dovuto portare per circa un secolo: Le confessioni di un ottuagenario, invece di Confessioni di un italiano. Tutti sanno poi che l’editore Le Monnier, pubblicando il libro nel 1867, 6 anni dopo la morte dell’autore, non voleva confondere un romanzo da offrire a un vasto pubblico di lettori con la letteratura memorialistica del Risorgimento. Simili a questo ci saranno stati altri casi, che però è poco utile individuare ed elencare.

Gli antefatti allo Zibaldone di Leopardi

Alquanto diverso, ma del pari interessante nell’ambito culturale, sembra quello che concerne lo Zibaldone di Leopardi, che l’editore (ancora il Le Monnier) – e per lui forse il Carducci, che promosse la pubblicazione dopo che lo Stato italiano aveva acquistato il manoscritto e depositato esso, con le altre carte leopardiane già in possesso di Antonio Ranieri, nella Biblioteca Nazionale di Napoli – volle intitolare, con innegabile eleganza, Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura, ricavandosi veramente il nuovo titolo da un indice parziale dello stesso Leopardi, risalente al 1823. È probabile che la parola “zibaldone”, di vecchio uso erudito, suonasse allora inelegante, com’è vero che in accezione comune essa significa qualcosa di farraginoso e pesante.

Ma successivamente è stato possibile accertare che l’idea di accumulare uno “zibaldone” di pensieri era stata suggerita al giovane Leopardi dal colto amico di casa Giuseppe Antonio Vogel, prete alsaziano in esilio, il quale infatti, in una sua lettera, consiglia proprio la produzione di “zibaldoni”, che per lui erano “magazzeni, da cui escono alla giornata tante belle opere in ogni genere di letteratura, come dal caos sortirono tempo fa il sole la luna e le stelle“. E il Carducci, esaminato il manoscritto del Leopardi, si avvide subito che, tra appunti filologici e abbozzi di lavori e trascrizioni di passi di opere lette, vi si trovavano osservazioni filosofiche e letterarie finissime.

E che cosa ne fu del bellissimo titolo leopardiano? Era abbandonato sulle copertine dei volumi della vecchia edizione Le Monnier, allora che Francesco Flora aveva dato una nuova edizione in due volumi dello Zibaldone col suo vero nome, quando neapprofittò il Croce, ricavandone due agili titoli: uno per gli Aneddoti di varia letteratura e l’altro per i Discorsi di varia filosofia.

L’invadenza degli editori sui titoli di libri a fini commerciali

L’attiva e persino invadente partecipazione dell’editore alla scelta del titolo nella letteratura moderna è icasticamente rilevata da Theodor Adorno in un saggio pubblicato nel 1962, Note per la letteratura prendendo le mosse dal proprio editore francofortese: 

Peter Suhrkamp aveva per i titoli delle doti impareggiabili. Esse erano forse il sigillo delle doti di editore. Una dote da editore è forse la capacità di definire, di indurre il testo a tradire il suo titolo. Egli decide sulla pubblicazione in base al fatto che dal testo ne scaturisca uno. Una delle idiosincrasie di Suhrkamp era rivolta contro i titoli con “e”. Un titolo del genere era già indubbiamente la iattura di Intrigo e amore. Come nella allegoresi, lo “e” permette di collegare tutto con tutto e perciò è impotente ad arrivare al colpo di genio. Ma come tutte le prescrizioni estetiche, anche il tabù sullo “e” è solo un gradino al proprio superamento. In vari titoli, e in definitiva in quelli supremi, il pallido “e” succhia aconcettualmente il significato entro di sé, significato che se capito, si dissolverebbe in polvere. In Romeo e Giulietta lo “e” è il tutto, di cui è un momento. In Moralità e criminalità di Kraus, lo “e” sembra una battuta inghiottita. Malignamente e banalmente le due parole antitetiche vengono accoppiate fra loro come se si trattasse semplicemente di definirne la differenza. Attraverso il riferimento al contenuto del libro, tuttavia, ogni parola si capovolge nel suo contrario. Ma il titolo Tristano e Isotta, stampato in lettere gotiche, sembra una nera bandiera che soffia dalla prora di una nave a vela.

Sono osservazioni forse profonde, ma espresse come se l’autore stesse scherzando o fingesse di scherzare. Giudichi il nostro lettore, e tenga presente che in materia di titoli non si è scritto che pochissimo e, dopo che Lessing se ne mostrò interessato e prima del già lodato Genette, il filosofo Adorno è uno dei rari autori che si sono soffermati sul soggetto. Altri casi ci sono, in cui non è stato proprio l’editore a mutare il titolo di un’opera, bensì la tradizione e l’uso. E se il mutamento è prevalso, ciò vuol dire che era opportuno.

Quando a cambiare i titoli dei libri è la tradizione

Si consideri quanto sia più felice (e sia stato più propizio alla fama) il “Principe” di Machiavelli, invece dell’umanistico e aulico “De principatibusoriginario, che l’ex segretario fiorentino aveva indicato a Francesco Vettori nella famosa lettera del 10 dicembre 1513. Il primo titolo è oggi quasi dimenticato, ma sono rimasti i titoli dei capitoli, anche latini. Si può azzardare l’ipotesi che il titolo latino dell’opera l’avrebbe, almeno all’inizio, confusa con le tante altre trattazioni umanistiche di contenuto moralistico e platonico. Augurandomi ora che il titolo di questo mio articolo “Varietà e arbitrio nell’intitolazione dei libri” abbia fortuna – senza la presunzione di equipararla a quella del Niccolò fiorentino! – e che almeno riesca a stuzzicare la lettura anche a lettori non abituali!

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