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The name of this band is Smile, in tutti i sensi: la band di Torino verso un nuovo album
L’INTERVISTA – Gli Smile tra significati e significanti della loro musica e del loro ultimo singolo, Hideout
Smile, sembra uno e invece sono 4: Michele Sarda, Hamilton Santià, Mariano Zaffarano, Francesco Musso, gli Smile sono loro. Band nata a Torino nel 2019, gli Smile ci raccontano la loro personale fotografia del presente a distanza di pochi mesi da un traguardo importante, la pubblicazione del loro album-debutto: The Name of This Band is Smile. Un ingresso caloroso in termini di critica musicale che ha accolto l’album con entusiasmo facendo strada ad un nuovo step del loro percorso, la pubblicazione del singolo Hideout avvenuta il 23 luglio scorso.
Gli Smile ci raccontano il fine ultimo e il mondo di significati che gravitano attorno al loro personale modo di vivere e concepire la musica.
In ascolto degli Smile: “Siamo nervi, volume, melodia e passione“
In 4 parole come descrivereste gli Smile?
Nervi, volume, melodia, passione
Come siete venuti alla luce e cosa si nasconde dietro alla scelta del nome “Smile”?
Siamo nati nell’estate del 2019, riallacciando un discorso musicale che il cantante e il chitarrista avevano interrotto un paio di vite fa. Dietro il nome Smile c’è soltanto la volontà di essere associati a un concetto semplice, da riempire con la musica e con le canzoni. Un concetto quasi opposto a ciò che trasmettiamo con la musica. Quasi a dire: “Vedete? Non c’è poi molto da ridere“.
Quali grandi nomi della musica influenzano e hanno influenzato la vostra scrittura?
Anche in questo caso, quattro nomi: R.E.M., Smiths, Replacements e Hüsker Dü.
Smile: una pandemia tra le ruote e un nuovo disco in cantiere
Nell’album troviamo tematiche attuali, riflessioni generali che hanno molte cose in comune con gli strascichi della pandemia. Che significato ha avuto per voi vivere un momento segnato dal lockdown?
Il disco non è stato scritto durante il lockdown, anzi. Era tutto pronto prima delle fasi acute dell’emergenza. Semmai, parlava di quel senso di vuoto e spaesamento di una generazione che sente come il presente gli stesse sfuggendo tra le mani. Come band, invece, il lockdown ci ha inevitabilmente messo i bastoni tra le ruote. Come a tutte le persone che suonano. Noi eravamo appena nati, eravamo in rampa di lancio, ci eravamo appena esibiti live per le prime due volte e siamo stati costretti a fermarci.
La musica è sempre la stessa o anche la musica è cambiata?
La musica cambia sempre, uno degli aspetti più elettrizzanti della vita è vedere di volta in volta come lo farà.
Qual è l’artista che più avete ascoltato durante il periodo più nero della pandemia?
I nostri ascolti durante la pandemia rispecchiavano i nostri stati d’animo, tra tristezza, assenza di risposte e anche un po’ di rabbia. Da Phoebe Bridgers a Sharon Van Etten, passando per dosi massicce di band come Fontaines D.C., Protomartyr e Cloud Nothings. Oltre alle band del giro Subjangle e Dotto, le nostre due etichette che vi consigliamo di recuperare come You Nothing, Low Standards High Five, 3am Again e Lost Ships.
Progetti in cantiere?
Stiamo lavorando al disco nuovo. E abbiamo voglia di recuperare il tempo perduto. Tutto.
Il motto: “Se funziona, perché complicarlo?”
Quanto incide, nel mondo della musica, la vicinanza fisica con il pubblico?
In maniera determinante, ci manca tantissimo, sia come spettatori che come musicisti.
Il vostro motto?
Qualche anno fa vi avremmo detto: “ALZA IL VOLUME!”. Adesso invece vi diciamo: “Se funziona, perché complicarlo?”.
L’aneddoto più divertente o particolare che avete in comune?
Dopo il nostro primo concerto un nostro amico, conosciuto per essere un discreto rompicog**oni e mai soddisfatto di praticamente niente, ci prende da parte e ci dice: “Ca**o, ma siete una band vera!”.