Cinema e Teatro
Sergio Castellitto: “Il vero successo sarebbe smettere di recitare”
L’attore i è lasciato andare ad una lunga riflessione sullo stato di salute del cinema e sul suo lavoro da attore
Dal ruolo della settima arte nel mondo contemporaneo alla volontà di sentirsi per una volta “non attore”
La poca rilevanza del cinema italiano nel panorama internazionale, il suo approccio alla recitazione e la volontà di non sentirsi più legato alla parola “attore”. Questo quanto affrontato da Sergio Castellitto nel corso di una lunga intervista rilasciata a Fanpage. L’attore romano classe 1953, ha espresso il suo pensiero in maniera schietta, senza cedere a vane lusinghe di circostanza e rendendo ancora una volta evidente il suo modo di affrontare la vita e la professione.
Sergio Castellitto sulla crisi del cinema italiano
Alla richiesta di un parere sulla rilevanza o meno del cinema italiano, rinvenuta da colleghi del calibro di Pierfrancesco Favino, Sergio Castellitto ha replicato così: “A me sembra che il cinema sia sempre meno influente in generale. Da quando faccio questo mestiere sento parlare di crisi del cinema italiano. Ricordo che nella parola crisi c’è una grande fertilità, ma il cinema è anche un gesto industriale. È poesia che costa un sacco di soldi. Penso che la sua complessità e la sua manifestazione assoluta siano in crisi e tutto ciò colpisce ancora di più perché in fondo è un’arte giovane. Ha solo un centinaio di anni, a differenza dei 4mila anni nei quali si tramandano le tragedie a teatro”.
“L’attore è un mestiere anche riprovevole e deleterio”
Oggi dal cinema, Sergio vorrebbe poter prendere una certa distanza: “Questo è un mestiere che ci fa stare troppo al centro di un ciclone dove i protagonisti siamo sempre noi stessi. Anche per questo smettere sarebbe un gesto meraviglioso. Mi piacerebbe prendermi la soddisfazione, per qualche anno della mia vita, di non sentirmi per forza un attore“. Dopo 120 film e un approccio perenne da studente, sempre pronto ad imparare e a mettersi in gioco, Castellitto ha un modo di analizzare il suo percorso che legittimamente può portare a sognare un distaccamento. Questa la sintesi del suo pensiero: “Vedo questo mestiere anche come qualcosa di riprovevole e deleterio, che può tirarti fuori le parti peggiori, dalla competitività all’ego smisurato. Ti spinge a compiere delle rinunce, non solo sociali, ma interiori. Per affrontarlo con convinzione devi accettare anche la possibilità di diventare peggiore. Sono convinto non ci sia niente di più politico della psiche. Certo, è anche un mestiere che mi ha portato gioie e soddisfazioni, in un mondo nel quale spesso la gente non lavora o non fa il lavoro che ama”.