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Quell’amore di panchina: l’appuntamento con l’infinito
In un mondo così terribilmente frenetico abbiamo disimparato a sostare: perché nessuno è perduto, fuorché una panchina
Quanti di noi sanno ancora concedersi una sosta nella vita?
C’è poco tempo per camminare a piedi e quindi c’è poco tempo per soffermarsi. Cos’è una sosta nella vita? È un punto fondamentale del nostro cammino, a volte breve, appena un tempo di attesa, di contemplazione, di meditazione, quasi apparentemente un nulla eppure panta rei: tutto scorre a velocità, naturalmente supersonica, e noi per primi usiamo i propulsori sotto forma non solo di automobili, treni, aerei e metrò, ma anche sotto le mentite spoglie di tablet, cellulari e orologi fantascientifici senza lancette che ci fanno filare a cento all’ora sull’asfalto ghiacciato dell’oblio e della noncuranza, dimenticandoci di sostare.
C’è un pezzetto di mondo quasi scomparso che costituiva la rappresentazione viva e toccante di una mentalità, di un costume, di una maniera di affrontare ciò che quotidianamente le ore presentano nella loro danza infernale: la panchina. Non quella famosa dei grandi personaggi del gioco del calcio sulla quale siedono gli allenatori, misteriosi maghi, i quali scrutano attraverso la sfera rotolante alchimie di tattiche e moduli vincenti. Mi riferisco ad altre panchine, quelle fatte di pietra bianca un po’ rugosa, oppure di ferro pitturato con l’immancabile ed eterno color verde bottiglia.
La panchina, una romantica e romanzata sosta
Panchine che sono, anzi erano, invischiate nella città. Panchine che si vedevano dovunque, e non di certo perché prima si era più stanchi di oggi: deliziose e romantiche in un angolo di via, in una piazza con la fontana, adagiate a basamenti di palazzi quattrocenteschi, tra un filare di alberi, solitarie o schierate come soldatini di piombo in fila per uno. Ciascuna di esse era un po’ come un romanzo a puntate, uno schizzo, una nuvola di sogno, bozzetti cinematografici a colori vivaci o leggermente accennati a matita in un affascinante bianco e nero senza tempo.
La panchina quale luogo di sosta, un’utopia realizzata, su di essa si contempla lo spettacolo del mondo, si guarda senza essere visti e ci si dà il tempo di perdere il tempo nel modo migliore, comprendendolo e forse fermandolo nell’attimo più luminoso. È proprio così quando in Manhattan una notte, alle quattro di mattina, Woody Allen e Diane Keaton vanno a sedersi su una delle panchine del piccolo parco di Sutton Place. Davanti a loro l’East River silenzioso e sullo sfondo, immerso nella foschia della notte, il Queensboro Bridge, avvolti dall’immortale musica di George Gershwin.
Il ruolo della panchina nella letteratura
In letteratura quante volte la panchina ha svolto la funzione di luogo di incontro e dialogo tra i protagonisti: è lì che si conoscono Frédéric Moreau e Madame Arnoux in L’educazione sentimentale di Gustave Flaubert; ne Le notti bianche di Fëdor Dostoevskij tutta l’azione dei personaggi si concentra dinnanzi alla ringhiera di un canale e poi sulla panchina. Nasce e si chiude su una panchina anche la novella di Samuel Beckett Primo amore. La panchina è assoluta protagonista ne La nausea, romanzo di Jean-Paul Sartre. Qui il protagonista riesce a capire la natura del proprio male arrivando a percepire e a comprendere il caos e l’assurdità dell’esistenza. Ne La villeggiatura in panchina, inserita nella raccolta Marcovaldo ovvero Le stagioni in città di Italo Calvino, il simpatico protagonista cerca di sfuggire ai rumori e alle noie della città rifugiandosi su una piccola panca nel verde.
La sosta nella pittura da Manet a Hopper
Nella Parigi di fine ‘800, sono alcuni pittori impressionisti a ritrarre la panchina, ormai diffusa nei parchi e nelle strade. Nell’opera Le Banc di Édouard Manet la panchina si trova al centro dell’ambiente e nessuno vi siede sopra. I dipinti di Berthe Morisot, invece, inquadrano la popolazione parigina anche negli attimi di pausa dalla frenesia della vita urbana, come in Una donna seduta su una panchina sull’Avenue du Bois e in Eugène Manet e sua figlia nel giardino di Bougival.
Vincent Van Gogh ritrae una seduta tra gli alberi nell’olio su tela Panchina di pietra nel manicomio di Saint-Remy e In Notte nel Parco di Edward Hopper le panchine e il lampione consentono a un uomo di leggere un giornale di notte a Central Park. Già nell’antichità le panchine facevano parte della vita urbana delle città, come testimoniano i resti di sedute pubbliche ritrovate a Pompei e nella Valle dei Templi ad Agrigento. Tuttavia, è in Toscana tra il XIV e il XV secolo che assumono maggiore importanza, in concomitanza con un processo di valorizzazione delle piazze, delle logge e delle vie principali, che porterà alla nascita delle città moderne, prima fra tutte la Firenze medicea.
La mia panchina
A Napoli – ma ne sono certo un po’ dappertutto – era la casetta dell’appuntamento con l’amore, quello genuino, semplice, spontaneo, fatto di sospiri e lacrime, sorrisi e sogni. Mentre Partenope si specchiava nell’azzurro del golfo ed i riverberi rendevano argentei i riflessi delle onde ed il sole scaldava ogni cosa, come un tocco di bacchetta magica, i libri venivano accantonati in un angolo della panchina. La sintassi latina infilava le proprie pagine nella storia della letteratura greca.
Didone, tanto per rimanere in regola con l’attualità, poteva tranquillamente struggersi nel suo dolore ed Enea navigare imperterrito sulle barchette fatte di carta. Panchine che sapevano di incenso, profumate di poesia. L’umanità attraverso i suoi personaggi, soprattutto grazie all’adolescenza ed alla giovinezza, vi passava i momenti più belli. E ad essi cedevano il posto i vecchietti, coscienti che uno spicchio di mare serviva più agli altri che ai loro ricordi.
Il sole si consegnava alle prime ore della sera che incalzavano. Ore fuggenti, ultima possibilità di intendersi, di capirsi, di scrutarsi nel profondo dell’animo, ma anche per guardare nel proprio. Quella seduta, non sempre comodissima, si trasformava in una terrazza fiorita in bilico su un immenso prato di sentimenti. E la luna saliva nel cielo sempre di più ed era come un implacabile orologio: un invito a sciogliersi perentoriamente dall’incantesimo… tempi ormai lontani, di quando alle 7 di sera si rientrava in casa.
Nell’incessante flusso del “fare”, abbiamo disimparato a sostare
Oggi non solo ci si innamora correndo, ma si vive nella frenesia credendo di andare più lontano, senza sapere che scappando in quel modo non si fa altro che lasciarsi alle spalle la bellezza e il mistero dell’infinito. C’è troppa fretta per sedersi, basta osservare che ormai ci si muove in gruppo e in una panchina non si starebbe comodi. Si avrebbe bisogno di un “parcheggio panchine” ed avremmo anche i “guardia panchine”: “Prego dottore venga avanti, piano, piano, si accomodi“. E patapùmfete, le panchine, logorate, abbandonate, non facenti parte del piano di ristrutturazione programmatica moderna cittadina cascherebbero a pezzi in un polverio di pietra sfusa o di ferraglie contorte. E le tinte poi!
Basta con la pietra grigia, basta con il verde bottiglia. In fondo ci si meraviglia che non abbiano fatto una tavola rotonda sul colore da dare alle panchine, le poche che si scorgono da qualche parte. Ci si meraviglia che non sia nato il sindacato delle panchine, che non abbiano messo il “disco panchina”, che non ci sia stato un corteo di protesta con la scritta “vogliamo il nostro colore”: giallo, aragosta, blu-viola, rosso cardinale, con una spolveratina di ruggine per dar tono.
“In un mondo che è dinamismo e corsa sfrenata, una sosta sembra tempo perduto“
Appunto, forse non accade perché le panchine non interessano quasi più. Non interessa più quell’appuntamento con l’infinito, guardare l’orizzonte, scrutare e interrogare il nostro pensiero, fermandoci un po’ e accelerando una sosta anche per innamorarsi di più. Giambattista Vico e Sigismund Thalberg, nella fissità del marmo, devono scambiarsi sguardi sbigottiti nella Villa Comunale di Napoli. Abituati per oltre un secolo ad osservare con spirito filosofico il primo, sulle note della melodia il secondo, il cantico dell’amore e le riflessioni profonde di pensatori solitari, si sorprendono oggi non poco di quelle stesse panchine vuote che si alternano ahimè a quelle occupate dai senzatetto. Immagine che non produce per ovvi motivi né poesia romantica, né meditazioni, ma soltanto malinconia, provvisorietà, precarietà e declino.
Amori, pensieri, stanchezza, ricordi, speranze questo significavano ed ancora oggi possono significare quei sedili inanimati fatti di pietra o di ferro. Ma chi lo intuisce? In un mondo che è dinamismo e corsa sfrenata, una sosta sembra tempo perduto, mentre invece è vita guadagnata, saporosamente gustata, sfogliando nella mente il libro dolce e malinconico del passato, leggendo la pagina fuggente del presente e cercando di scrutare nei fogli imprevedibili del futuro che è lì davanti a noi pronto per essere afferrato. Sostare lì su quella panchina significa non farsi trascinare dalla corrente: ovunque si trovi, la panchina è per chi si siede il centro dell’universo, una piega del mondo, non un luogo nascosto ma una zona franca, liberata o salvata, dove semplicemente sedersi è già in sé libertà.
Søren Kierkegaard di questo ne era convinto tanto che nella Postilla conclusiva non scientifica alle briciole filosofiche nel 1846 scriveva:
Affaticato dal camminare, mi siedo su una panchina, testimone ammirato del modo con cui quel fiero dominatore, ch’è stato per millenni l’eroe del giorno e lo sarà fino all’ultimo giorno, del modo con cui il sole nel suo tramonto di fuoco investe delle sue figurazioni l’intero paesaggio, mentre il mio occhio portandosi al di là del muro che circonda il giardino, contempla quell’eterno simbolo dell’eternità: l’orizzonte infinito.