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Paolo Rossi: un’emozione senza fine che non può essere dimenticata
Il nostro omaggio ad un campione senza tempo che ci ha resi orgogliosi di essere italiani
Alla cerimonia della consegna dell’ultimo Pallone d’Oro, gli organizzatori francesi hanno doverosamente ricordato Diego Armando Maradona e Gerd Müller, campionissimi del calcio scomparsi nei mesi scorsi. Ignobilmente hanno dimenticato di onorare la memoria, viva e incancellabile, di Paolo Rossi. Il centrattacco che sapeva fare ciò per cui era stato inventato: il gol. Conquistava l’attimo fuggente, se ne impossessava e lo plasmava a suo piacimento. Genio sublime dell’area di rigore, univa a sé le doti della leggiadria del violinista e della freddezza di uno schermidore. Centravanti modernissimo, essenziale, senza fronzoli, è stato il più efficace antidoto alla decadenza del calcio italiano.
Visto che non c’era verso di fermarlo in campo, i soliti tromboni falsi moralisti e manipolatori della giustizia, fecero ricorso all’arma della maldicenza e della calunnia. Il tempo però fu galantuomo e l’immagine di Rossi ancor oggi si staglia più che mai pura e netta nel firmamento calcistico. Senza di lui non si riesce minimamente ad immaginare cosa sarebbe oggi l’Italia, e non solo quella sportiva. Un fiuto del gol naturale, quintessenza dell’opportunismo, dote innata che non può essere insegnata in nessuna scuola di calcio, con un sesto senso che lo faceva trovare sempre puntuale all’appuntamento con il pallone.
Quelle indimenticabili braccia alzate verso il cielo
Un ragazzo dai riccioli nerissimi e dagli occhi profondi e languidi, un sorriso schietto, dalla faccia pulita, fisico asciutto, rapido nei movimenti, dall’intuito formidabile, bruciava i difensori nello scatto breve. La sua prerogativa era giocare d’anticipo. L’area di rigore diventava il suo terreno di caccia, dentro la quale si travestiva da rapinatore professionista, si muoveva con aria sorniona e gli occhietti da furbo, poi al momento opportuno partiva come un fulmine, e la sfera era già rotolante in rete. Intelligente tatticamente, una sua qualità era quella di giocare senza pallone, di non aspettare: era lesto a smarcarsi negli spazi vuoti, cercava aria quando gli spazi si intasavano, battendo sul tempo il malcapitato avversario.
Ad ogni suo gol esultava braccia al cielo, correndo a perdifiato, cercando con lo sguardo il compagno da ringraziare per l’assist ricevuto e il mister per aver creduto in lui. Un uomo buono e riservato che possedeva una rarissima virtù: la gratitudine, intesa come un “andare incontro”, un camminare verso l’altro a mani aperte per intrecciare un largo abbraccio, gentile e sincero.
Dagli esordi nella sua Toscana alla leggenda in maglia bianconera
Nacque a Prato il 23 settembre 1956. Cominciò a giocare a calcio nel Santa Lucia, squadra della frazione della sua città, passando per la Cattolica Virtus di Firenze, importante società giovanile. Approdò al calcio professionistico nella Juventus nel ’72, con un inizio sfortunato: subì tre operazioni di rimozione dei menischi. Riuscì ciononostante ad esordire in prima squadra due anni dopo in Coppa Italia. Venne mandato al Como nella stagione ’75-76, giocò ala destra e disputò sei partite con una rete al suo attivo. Nella stagione successiva fu ceduto al Lanerossi Vicenza dove esplose con i suoi gol, trascinando la squadra in serie A. L’anno successivo vinse la classifica dei cannonieri con ventiquattro centri, portando il Lanerossi al secondo posto in classifica, alle spalle della Juventus. Rimase un altro anno nella città della Basilica Palladiana, prima di emigrare a Perugia, in prestito, dove fu travolto dallo scandalo del calcio scommesse.
Fu squalificato ingiustamente per tre anni. Il ricorso in appello ridurrà la pena, appena in tempo per volare con gli azzurri al Mundial di Spagna. La Juventus nel marzo dell’81, fortemente voluto dal presidente Boniperti e da Trapattoni, riprese Paolo Rossi sotto l’ala bianconera. Il 2 maggio 1982, il numero nove finalmente poté tornare in campo per cominciare una nuova vita: fu allo stadio Friuli contro l’Udinese, con l’immancabile gol, contribuendo alla seconda stella bianconera. Con la Juventus vinse due scudetti, una Coppa Italia, una Coppa delle Coppe, una Coppa dei Campioni, una Supercoppa Europea, vantando 138 presenze, impreziosite da 44 gol. Lasciò la Juventus nell’85 per passare al Milan; chiuse la carriera l’anno dopo al Verona. Con la Nazionale, con la maglia azzurra, Paolo Rossi diventò leggenda, con 48 incontri disputati e 20 gol. Fece il suo esordio grazie ad Enzo Bearzot, suo grande mentore e padre putativo, a Liegi il 21 dicembre 1977, in un’amichevole vinta contro il Belgio.
Pablito, l’eroe del Mundial 1982
Fu tra i protagonisti assoluti nel Campionato del Mondo in Argentina del ’78, segnando tre reti rispettivamente contro Francia, Ungheria e Austria. Uomo-assist nell’azione del gol più bello del torneo, quello vincente contro i padroni di casa, all’Estadio Monumental di Buenos Aires. Bettega, a un paio di metri dall’area di rigore avversaria, scambiò velocemente con Rossi, il quale chiuse il triangolo di prima intenzione con un colpo di tacco, permettendo a Bobbygol di concludere in rete con un tiro nell’angolino destro di Fillol. Durante quel mondiale, col numero 21 sulle spalle, nacque il mito del suo eterno soprannome. In quell’epoca, essendo il talento più cristallino del Vicenza, riceveva sempre uno speciale occhio di riguardo dal quotidiano il Gazzettino Veneto, che non perse giustamente occasione di celebrarlo, appellandolo Pablito, perchè alle latitudini della terra d’argento, Paolino si declina proprio così. Arrivò l’ora del mondiale di Spagna, quello dell’82, quello della vittoria imperitura, quello di “Paolorossi”, scritto, detto e osannato tutto d’un fiato, proprio così, in un unico magico neologismo.
Parafrasando il filosofo Eraclito, chi non si aspetta l’inarrivabile non lo raggiungerà mai. L’Italia, grazie a Pablito, cominciò ad aspettarlo, raggiungendolo nel migliore dei modi. Il suo miracolo fu quello di far ritornare a sventolare nelle piazze e su tutte le finestre d’Italia il Tricolore, simbolo della ritrovata unità nazional-popolare. Tanti attaccanti nella loro carriera hanno segnato molti più gol di Rossi, ma nessuno come lui ha segnato la Storia. Gli siamo tutti debitori di emozioni indimenticabili. In una sola giornata, con il suo numero 20, diventato poi emblema del bomber nelle competizioni internazionali, riuscì a far piangere due nazioni: lacrime amare al Brasile e gocce di gioia all’Italia. Asfaltò i sogni di gloria della Seleção verdeoro, tra le più forti di tutti i tempi, con una tripletta, gesta d’eroi. Impresa leggendaria e unica, di cui si ode ancora il canto epico del telecronista Nando Martellini: “ROSSI GOL! L’ITALIA IN VANTAGGIO”. Per ben tre volte fu così, sino al fischio finale di quel 5 luglio 1982: Rossi 3-Brasile2. Quella partita passerà alla storia come la tragedia del Sarrià, per il grande Brasile, un nuovo Maracanaço, trentadue anni dopo.
El hombre del partido
Nella semifinale contro la Polonia, battuta da una sua doppietta, indimenticabile il suo sguardo da bambino felice e incredulo, quando, dopo il novantesimo, nel delirio degli azzurri in campo, indicò al suo Bearzot il tabellone luminoso del Camp Nou sul quale c’era scritto: El hombre del partido es Paolo Rossi (ITA). Era proprio così, nulla di più vero fu mai impresso in uno stadio di calcio. In finale, contro la Germania Ovest, dipinse il primo gol, quello che aprì la strada dorata verso la coppa del mondo. La palla gli arrivò da destra, con un cross carezzato di Gentile. Rossi si affidò all’istinto e all’attimo, quello che passa una sola volta nella vita. Si chinò in avanti, impattò la sfera e trafisse il perfido portiere del Colonia, Harald Schumacher. Dopo ci fu l’urlo di Tardelli, il terzo di Altobelli e la voce di Martellini che urlava Campioni del Mondo, per tre volte.
Pablito, capocannoniere con sei reti, campione del mondo, e premiato in quell’anno con il prestigioso Pallone d’Oro. Dopo aver baciato la coppa, con i compagni – i ragazzi dell’82 – che saranno suoi fratelli per tutta la vita, fece il giro del campo, portato in trionfo. Ad un tratto si sedette su un tabellone a guardare la folla entusiasta, il Santiago Bernabeu dipinto d’azzurro e si emozionò. Dentro sentiva un fondo di amarezza. “Fermate il tempo! – pensava – Non può essere già finita, non vivrò più certi momenti”. Noi tutti invece continuiamo a viverli grazie a lui: l’emozione di quegli attimi, le sue braccia aperte al cielo per ogni gol, è dentro ognuno di noi, in modo indelebile. Un uomo juventino, un campione amato dai tifosi di tutte le squadre d’Italia, un mito per le generazioni che l’hanno vissuto e per quelle successive.
Il cognome più comune di tutti, un talento raro come pochi
La morte, in un tristissimo 9 dicembre del 2020, decise prepotentemente di acquistare il cartellino di Paolo Rossi: in Paradiso avevano bisogno di un centravanti con la casacca azzurra per vincere, tra gli angeli, un mondiale. Il libero lo avevano già, è Gaetano Scirea; e l’allenatore è lì che si confonde tra le nuvole vere e quelle fatte dalla sua pipa, è il loro papà Enzo Bearzot. Insieme, uniti dall’amicizia più pura, per nuove meravigliose avventure.
I francesi, quelli della magnifique soirée de gala falsamente affetti da memoria corta, hanno perso la partita più bella, quella di emozionarsi una volta in più nella vita. Pablito, non morirà mai e galopperà per sempre su tutti gli arcobaleni del mondo – come quelli splendidi del pittore statunitense George Inness – tenendo ben stretta quella coppa alzata al cielo di Madrid, con uno splendido sorriso.