Attualità
L’Italia vince i Mondiali del 1982: 40 anni fa il reale cedette il passo al mito immortale
In quel tempo infinitesimale, tra un battito e l’altro del cuore, in una tempesta d’azzurri soavi turbamenti, fu scolpita per sempre nelle nostre anime quella felicità che mai avrà fine: 11 luglio 1982, l’Italia vince i Mondiali
Domenica 11 luglio 1982, l’Italia vince i Mondiali. Fu per tutti noi italiani una giornata spasmodica, spossante, adrenalinica: il ritmo delle nostre occupazioni, dalle più elementari alle più impegnative, e così la scansione delle distrazioni che cercavamo come sollievo, era continuamente interrotto da un rigurgito involontario, febbrile, quasi fisiologico di ansia, di assurda angoscia. Ogni volta un riflesso condizionato ci ricordava l’attesa e il tempo si stringeva avvicinandoci all’avvenimento.
11 luglio 1982, l’appuntamento con la Storia: l’Italia ai Mondiali del 1982
L’appuntamento era con la Storia. L’Italia dell’82 non si può definire a parole: sono i battiti del cuore, gli occhi lucidi, i fremiti, l’orgoglio di esserci stati, a raccontare dopo 40 anni le stesse incommensurabili emozioni che provammo in quei giorni del Mundial spagnolo. Aver vissuto quei momenti è come essere entrati per sempre a far parte di un’opera d’arte immortale: nell’infinito blu oltremare di Giotto mentre affrescava la volta della Cappella degli Scrovegni, venendo dalla campagna a braccetto con la leopardiana donzelletta, dondolandosi tra le note dei Notturni di Chopin.
Il tempo non scalfisce i capolavori: sognare ad occhi aperti l’estatica tripletta di Paolo Rossi al Brasile, guardare quell’orizzonte infinito di fronte a noi con Tardelli che corre a perdifiato e urla al mondo intero la sua, la nostra imprendibile rabbia di libertà, di gioia, di rivincita, di vittoria e sentirsi infine sicuri, difesi e coccolati nelle impenetrabili mani di Zoff, mentre accoglie dolcemente dal re Juan Carlos la Coppa del Mondo, alzandola al cielo di Madrid.
L’epica ed eroica scalata alla vetta più alta del mondo
Questo è stato e significherà per sempre quel mondiale, diverso da tutto ciò che prima e dopo i nostri occhi hanno fotografato. Il cammino trionfale della Nazionale italiana fu perfetto in un crescendo epico. Si passò dalle tormentate prime tre partite, sfumate, opache, oscurate di un nero degno del più cupo Goya, ai colori solari, accesi, brillanti, mediterranei di Mirò, costruendo la magnifica cavalcata sulle indelebili vittorie contro l’Albiceleste di Maradona, la Seleção verdeoro di Zico, l’insidiosa e mai doma Polonia di Boniek e infine la rocciosa sempreverde Germania Ovest dei panzer Schumacher e Rummenigge.
A dir la verità, un brasiliano in campo l’avevamo anche noi, era Bruno Conti, il piccoletto, l’ala destra mancina. Se c’era un dio che disciplinava il calcio in quel campionato, questo dio era ironico e farsesco, e Conti era tra i suoi delegati. Uno di quelli incaricati di burlarsi di tutto e di tutti, con i suoi dribbling a passo di samba, regalando assist che chiedevano soltanto una carezza per il gol.
Quei ragazzi dell’82, l’avanzata celestiale dell’Italia ai Mondiali
I calciatori azzurri, quei ragazzi dell’82, accompagnati per mano da papà Bearzot, aprirono un solco tra lo scetticismo ironico dell’inizio dell’avventura mondiale e la pura gioia di un intero Paese quella sera domenicale, calda e brividosa della finale dell’11 luglio di 40 anni fa. Quando partirono verso occidente, chi si sarebbe mai aspettato il sorgere della gloria? Ma a mano a mano che si svolgevano le partite, un numero sempre maggiore di persone indifferenti allo sport si andava identificando con la sorte dei giocatori, sentendosi trasportate nel luogo della mischia e in essa coinvolte.
E alla fine la fiducia era tanta che ormai non sarebbe crollata neppure con un risultato negativo. Se avessimo perso, sarebbe stato terribile, ma questo non avrebbe scosso la fede in quei prodi atleti. Sarebbe stata una disfatta individuale nostra, imposta soltanto dal capriccio delle cose, ingiusta senza umiliazione. E invece con lo slancio delle fiere la Nazionale avanzava, fingeva, arretrava, stringeva, assediava, vinceva, trionfava.
L’abbraccio al cielo di Paolo Rossi, l’urlo di Tardelli: l’immortale Italia ’82
Crescevano gli azzurri di minuto in minuto, ciascuno di loro in campo lottava per tutti noi e l’Italia intera palpitava: era arte, una geometria sagace aerea, musicale, di campioni sapienti che s’intendevano, membra polifoniche unite dall’inno di Mameli in un sol corpo, scultoreo, bello e sudato. Quel gruppo granitico fu superiore a tutte le avversità: prevalse per organizzazione, perseveranza, resistenza, spirito e tecnica. Il suo miracolo fu quello di far ritornare a sventolare nelle piazze e su tutte le finestre d’Italia il Tricolore, simbolo della ritrovata unità nazional-popolare.
Enzo Bearzot protesse i suoi figlioli dalla critica più bieca, mettendo in campo i più alti valori morali di amicizia e fratellanza, oltre alla voglia di dimostrare di essere davvero i più bravi di tutti.
I sospiri ansiosi e palpitanti di quelle giornate.
Le braccia aperte al cielo per ogni gol di Pablito.
Il tenero bacio di capitan Zoff a Bearzot.
L’apoteosi del Sarria contro l’invincibile Brasile.
Il contrattacco di Scirea nell’area della Germania.
L’urlo di Tardelli.
Il gaio sorriso fanciullesco di Pertini.
L’arbitro Coelho che si inchina al passaggio di Bergomi prendendo il pallone con le mani, decretando con i 3 fischi la fine della partita e l’inizio della gloria.
La voce di Martellini che scandisce per tre volte il poetico e liberatorio Campioni del Mondo.
Questi momenti sono la nostra vita, perché noi siamo lo spirito di quei ragazzi dell’82, che resero noi tutti eroi!
La vittoria dell’Italia ai Mondiali del 1982: un atto d’unità, un atto di amore
D’improvviso l’Italia si trovò unita, contenta d’esistere, in un puro momento di grandezza. Vincere con onore e grazia, con bellezza e umiltà vuol dire essere maturi e meritare la vita, atto di creazione, atto d’amore. A Bearzot, pastore prudente e saggio, e ai suoi uomini in campo e tra le quinte, gli italiani devono questa eterna felicità. Alcuni temono che quel tanto agognato stato d’animo, secondo a nessun altro, sia un bene molto lontano, quasi irraggiungibile, motivo per cui corrono a più non posso nella speranza di avvicinarlo senza mai rendersi conto che più corrono e più se ne allontanano. La felicità invece è un bene vicinissimo, basta fermarsi e raccoglierla.
Dopo aver baciato la coppa del mondo Paolo Rossi fece il giro del campo, portato in trionfo dai suoi scudieri. Ad un tratto, stanco dopo la vittoriosa battaglia, si sedette su un tabellone a guardare rapito la folla entusiasta, il Santiago Bernabeu dipinto del colore del cielo simile alla sua casacca e si emozionò. Dentro sentiva un fondo di amarezza: “Fermate il tempo! Non può essere già finita, non vivrò più certi momenti”. Invece proprio in quell’istante tutti ci fermammo un secondo con Pablito, trattenemmo il respiro in compagnia delle dolci lacrime che scorrevano veloci e festose sulle guance. In quel tempo infinitesimale, tra un battito e l’altro del cuore, in una tempesta d’azzurri soavi turbamenti, fu scolpita per sempre nelle nostre anime quella felicità che mai avrà fine.