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L’importante non è vincere, ma partecipare. Siamo proprio sicuri?
L’editoriale (a 5 cerchi) di Roberto De Frede
In occasione dei Giochi olimpici di Londra del 1908, il 24 luglio – mentre il nostro leggendario Dorando Pietri drammaticamente tagliava per primo il traguardo della sua maratona senza poterla vincere – Pierre de Frédy, barone di Coubertin, storico e pedagogo, pronunciò, nel corso di un banchetto offerto dal governo di Sua Maestà britannica, una frase rimasta tanto celebre quanto travisata nel tempo, che suonava pressappoco così: “Domenica scorsa [il 19 luglio 1908], durante una cerimonia in onore degli atleti tenuta nella Cattedrale di San Paolo (qui a Londra), il vescovo di Bethlehem, cittadina della Pennsylvania Centrale, si è espresso in termini molto appropriati: l’importante in queste Olimpiadi non è vincere ma prendervi parte“. Lo stesso de Coubertin, quindi, mise bene in chiaro che la frase non era sua. Oggi molti adoperano quel concetto, che corre sul filo tra il cavalleresco e il canzonatorio, con approssimazione, sì da farlo risuonare addirittura ben più categorico: “Nei Giochi olimpici la cosa più importante non è vincere, ma partecipare“.
È tutto oro quello che luccica
In realtà il vescovo Ethelbert Talbot nel suo sermone originario predicava che “nei Giochi uno solo può cingersi della corona d’alloro, ma tutti possono provare la gioia di partecipare alla gara“. Si tratta è vero di sfumature, ma di fondamentale importanza se poeti e scrittori ci insegnano che la verità sta proprio nelle sfumature. La frase non venne pronunciata a sproposito, ma era stata dettata per cercare di dare tregua – senza peraltro riuscirvi – alla grande e pericolosa rivalità fra atleti appartenenti al Regno Unito e quelli degli Stati Uniti, in gara al White City Stadium di Londra. Quindi una predica dettata da un fatto particolare, non universale! La frase che a mo’ di tormentone viene usata continuamente come palliativo, per consolare atleti sconfitti, non traduce al meglio la vera essenza dello sport e nello specifico di quello olimpico: andare a scovare la paura per dominarla, la fatica per trionfarne, la difficoltà per vincerla. Siamo onesti. Tutti gli atleti hanno un unico irrinunciabile desiderio, leggibile nei loro occhi che, sognatori e incantati, guardano lontano all’orizzonte un arcobaleno dorato: essere ricordati negli almanacchi e nei libri di storia non come “olimpici”, cioè semplici partecipanti ai Giochi, bensì “olimpionici”, ovverosia vincitori ai Giochi.
Vincere o non vincere: questo è il dilemma
Del resto, un vincitore chi è se non semplicemente un sognatore che non si è arreso? “Lo sport piace perché lusinga l’avidità, vale a dire, la speranza di avere di più, di vincere”, diceva un altro barone, stavolta quello di Montesquieu! Lo sport deve correre il rischio di tendere verso l’eccesso: è questo il suo inconveniente dal punto di vista dell’equilibrio umano, ma è anche la sua nobiltà, la sua poesia, e il suo ritorno alle origini greche dell’etica agonistica e dell’ideale eroico. Elementi distintivi che possono riassumersi nel primo vero motto “olimpico” del 1894, coniato da padre Henry Didon: “Citius, Altius, Fortius – Communiter”, “Più veloce, più in alto, più forte – insieme”: un vero e proprio inno alla vittoria, altro che alla partecipazione! Per onorare e rispettare lo sport e gli sconfitti l’obiettivo della vittoria deve essere costante e vivo in ogni atleta: ricercata con fair play, generosità, lealtà, senza violenza e sempre rispettando l’avversario. Ed è questo il concetto di sport che ci piace, senza mortificazioni e umiliazioni, né per i vinti, né per i vincitori “rei” di aver fatto “qualcosa in più” rispetto alla semplice “importante partecipazione”!
E allora, vittoria sia!
Intervenire alla manifestazione ludica può essere gratificante, ma di certo non apre la porta dell’Olimpo dove, insieme agli dei, siedono i campioni, mostrando orgogliosi il loro collo impreziosito dalla medaglia d’oro. A proposito, secondo una tradizione – di cui ci parla nelle Olimpiche il poeta greco Pindaro, elegante cantore delle vittorie sportive in onore di Zeus -, a tracciare il sacro recinto di Olimpia, a edificare il santuario col bosco di olivi selvatici da cui si traevano le corone dei vincitori e a fondare i Giochi sarebbe stato nientemeno che Ercole, al ritorno dalle sue celebri fatiche. E vi pare mai possibile che un tipo come quello, tra una sfacchinata e l’altra, avrebbe dato “importanza” alla sola “comparsata”? Dunque, siamo proprio sicuri che l’importante non è vincere?…