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La parola libertà, singolare o plurale?

L’editoriale di Roberto De Frede

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In questi giorni il nostro primo ministro ha dovuto ricordare – nei suoi discorsi – che l’Italia è uno stato laico, libero e non confessionale. Molti addetti ai lavori hanno spesso usato il termine libertà al plurale, disquisendo sulla facoltà di scelta che ogni uomo possiede, in ogni campo. Ma il vocabolo libertà bisogna usarlo al singolare o al plurale? 

L’uomo è libero o ha diverse libertà?

Da tempo in Italia è invalso l’uso del plurale di questa grande e illustre parola: libertà. Forse anche per il nome che qualche decennio fa fu dato ad una concentrazione politica chiamata Casa delle libertà. In precedenza si era sempre parlato di libertà al singolare, tanto è vero che inizialmente, da parte degli stessi aderenti e simpatizzanti, scrivendosene nei giornali o parlandosene in televisione, c’era un po’ di confusione o incertezza se la dizione esatta fosse “delle libertà” o “della libertà”, e l’equivoco forse nasceva anche dal fatto che, dovendosi applaudire, non era certo possibile dire “viva (o, più correttamente, vivanole libertà”.

Prima di questa esperienza politica, la parola, tanto nelle trattazioni teoriche quanto nelle celebrazioni ed invocazioni – tanto, per esempio, nel noto saggio di Benjamin Constant, De la liberté des anciens comparée à celle des modernes (1819), e nell’opera di John Stuart Mill, On Liberty (1859), quanto nei celebri versi danteschi riferiti a Catone Uticense e nel trinomio famosissimo della Rivoluzione francese – era stata sempre adoperata al singolare, al pari di tutte le parole che, denotando valori morali o spirituali, o non hanno bisogno di plurale oppure al plurale cambiano significato. 

Né di plurale si trattava nella quadripartizione della Carta Atlantica del 1941, risalente alla definizione del presidente degli Stati Uniti Roosevelt e resa nota poi nell’Italia occupata anche sulle banconote delle amlire, in Freedom of speechFreedom of worshipFreedom from fearFreedom from want, e non solo perché la parola era pur sempre singolare, ma soprattutto perché si volevano esprimere non quattro libertà, bensì quattro articolazioni o esigenze di essa.

Ma la storia del Medio Evo ci informa che in Inghilterra nel 1215 il re Giovanni detto senza terra concesse una “Grande Carta delle libertà” (Magna Charta libertatum), e questo plurale a me – per semplice associazione di termini e semplicemente come espressione – è sembrato un antecedente se non unico, certamente raro, della creazione politica di cui sopra e di quanti usano parlare al plurale della libertà.

Dunque il plurale di libertas, raro e quasi inusitato nella lingua latina, se non nel significato di concessioni e particolarmente quelle dell’emancipazione di schiavi, valeva nel Medio Evo nell’accezione di “privilegio” (privatio legis lex privata): concessioni individuali fatte in circostanze eccezionali e in vista di contropartite vantaggiose (nel caso di cui sopra per la monarchia), oppure sotto la minaccia della ribellione; e infatti nel caso inglese la Magna Charta era definita, nella continuazione del titolo, come una pace e un accordo delle parti: “concordia inter Regem Johannem et Barones”.

Oggi il plurale della parola libertà si può spiegare con l’intento o l’esigenza di renderla da astratto valore, concreta realtà. Purché le “libertà” non tornino ad essere le medievali libertates, cioè privilegi riservati a classi già ricche e potenti.

La Libertà è un metodo

Come valore ideale la Libertà – diceva Benedetto Croce – è un metodo, non una cosa particolare; anzi è un principio religioso. Egli racconta che una volta, discutendo in casa di Carlo Rosselli, a Parigi, di indirizzi e programmi politici contro il fascismo, uno dei presenti – persona assai nota e per il suo entusiasmo e disinteresse, e per le molte persecuzioni sofferte – gli obiettava: «Ma, caro amico, se al popolo insieme con la libertà non si dà qualche altra cosa che l’accompagni, il popolo non ne vorrà sapere», e nel dir ciò, faceva un gesto delle mani come se in un pezzo di pane inserisse una fetta di formaggio o di prosciutto. Ed egli, Croce, gli rispose sorridendo: «Non fate questo gesto! La libertà non è un pane a cui si debba aggiungere un companatico. La libertà, essenza unica, è un principio religioso, che rende forti i cuori e illumina le menti, e redime le genti e le fa capaci di difendere i loro legittimi interessi».

Per la sua forza magica, simbolica ed evocativa, la parola libertà ha il potere non solo di suscitare emozioni forti, ma quasi di sostituire la “cosa“. Illuminanti in proposito le parole del patriota modenese Carlo Testi il quale, nel luglio del 1799 tra i firmatari della petizione di Carlo Botta al Consiglio dei cinquecento per la libertà, l’indipendenza e l’unità della penisola italiana, esclamò: «Mi direte che una libertà a questo prezzo non vale la schiavitù: lo comprendo, ma questo solo nome di libertà mi tien luogo della cosa medesima».

La libertà dunque è una, è quella che discende dall’etica e dalla morale di ogni singolo soggetto, tenendo bene a mente che essere liberi non significa solo sbarazzarsi delle proprie catene, ma vivere in un mondo che rispetti e valorizzi la libertà degli altri.

Sono ben consapevole che con queste considerazioni siamo lontanissimi dai concetti attuali; ma pure è bene che non si perda la memoria dei valori autentici, almeno delle parole.

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