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Eduardo De Filippo e i suoi presepi alla ricerca della famiglia unita
Eduardo si serve di Napoli come una sorta di filtro, da cui osserva il mondo
È l’8 di dicembre. Ogni giorno dell’ultimo mese dell’anno scandisce dolcemente l’arrivo del Natale e quel presepe lì nell’angolo della casa da oggi diventa sempre più vivo e familiare. Ci avviciniamo continuamente per contemplarlo, soffermandoci su particolari a noi già noti sin da quando eravamo bambini, ma che non finiscono mai di rinnovare ricordi, pensieri creduti sopiti e nuove riflessioni della nostra vita, accompagnandoci per mano in un volo verso mondi sognati e non ancora raggiunti, ma anche verso desideri realizzati ma non ancora immaginati.
La sconvolgente e umana scoperta di Eduardo De Filippo
La rappresentazione della Natività ci riporta al teatro di Eduardo De Filippo. La sua Napoli è in gran parte nuova per le scene dell’epoca: una Napoli amara e difficile nella quale la tradizionale sincerità di un popolo può anche far da maschera all’ipocrisia, all’egoismo, alla malvagità. Si suole dire che in questa città, assai facilmente teatro e vita si confondono, mentre non sempre è vero che la individuale o corale commedia cittadina sia sempre per tutti allegra. Si dirà che questo è dovunque uno degli aspetti dell’eterna commedia umana, ma scoprirlo nella città che è ritenuta la più generosa e sincera del mondo può essere sconvolgente.
Eduardo De Filippo lo ha scoperto, ne è rimasto sconvolto e poi ha reagito portando sulla scena molti di quei napoletani non appartenenti al facile e sovente illusorio mito della città canora, tra un mandolino ed una pulcinellata. I suoi sono spesso personaggi schiacciati da una società in cui a stento riescono a vivere, alle cui regole male si adattano, uomini apparentemente semplici, ma dotati di un acume che sfiora le alte sfere della filosofia.
Di umorismo si parla, che la comicità è altra storia
Il punto cardine rimane comunque il riso che ha per il drammaturgo partenopeo un valore fondamentale, perché passa per il cervello, non fa sfogare come il pianto ma aiuta a riflettere. Questa volta però non è la comicità a scuotere lo spettatore ma l’umorismo, che è tutta un’altra storia. È quel modo di esprimersi che fa sorridere in un primo momento, anche ridere, ma ridere con intelligenza di una condizione che in fondo sottintende un malessere; buffa lì per lì, ma basta andare oltre per capire l’estremo dolore che c’è dietro quella risata, e quindi l’entità del disagio stesso.
La Napoli di De Filippo specchio di un’italianità diffusa
La riflessione che ne scaturisce è importante e mirata, perché Eduardo racconta storie vicine alle vite del suo pubblico e quindi quest’ultimo si sente vicino al personaggio di cui sorride, ma a cui è fortemente amaramente legato. I disagi della Napoli eduardiana sono quelli comuni a tutta la società italiana dilaniata dai due conflitti mondiali (Natale in casa Cupiello fu in origine scritta come atto unico nel 1931, passando in due atti nel 1933 e infine completata, quasi come la conosciamo oggi, nel 1943) che hanno sgretolato i valori e la capacità di comunicare delle persone, soprattutto nelle case, nel piccolo nucleo familiare, tra i parenti più intimi.
Eduardo si serve di Napoli come una sorta di filtro, da cui osserva il mondo. Napoli diventa non l’oggetto osservato bensì il suo stesso sguardo, creando i suoi personaggi come dei novelli architetti costruttori con tanta fantasia di realtà fittizie laddove quella reale sembra troppo dura da affrontare. Probabilmente conseguenza della sua infanzia trascorsa in una famiglia non “regolare”, Eduardo ha voluto raccontare il valore, la forza e l’importanza della famiglia unita e sacra come quella appunto presepiale, non sempre purtroppo raggiungibile.
Il ruolo attivo degli antieroi per scelta: Natale in casa Cupiello
Molti dei suoi protagonisti sono degli antieroi perduti in realtà che hanno deciso di subire e a cui non sono riusciti ad adattarsi. Uno tra tutti è Luca Cupiello in Natale in casa Cupiello. Vi è raccontata la storia di una famiglia napoletana, non appartenente né al popolino, né alla borghesia, che vive in una casa modesta, arrangiandosi come meglio può. Ad abitare il piccolo appartamento sono i coniugi Luca – capofamiglia almeno sulla carta – e Concetta Cupiello, il figlio Tommasino detto Nennillo, viziato e scansafatiche e lo zio Pasquale. Altri personaggi sono Ninuccia, la figlia di Luca e Concetta, che per volere dei genitori ha sposato il borghese Nicolino di cui però non è innamorata e Vittorio, amico di Tommasino e amante di Ninuccia.
Per la prima volta con questa commedia Eduardo scrive una sceneggiatura che si muove esclusivamente all’interno delle mura di casa – un vero e proprio presepe -, che vanno dal primo al terzo atto sgretolandosi sempre di più, come si frantuma l’apparato della famiglia patriarcale. Nello spazio privato di casa Cupiello si diramano i drammi dei personaggi, le loro tensioni e le loro illusioni.
Tutto accade per De Filippo, in un sola stanza
Lucariello è come incastrato in una sorta di scatola cinese. Prima si ritrova chiuso nella sua abitazione, poi chiuso in se stesso. Questa doppia chiusura gli preclude qualsiasi tipo di apertura nei confronti della società e della sua famiglia: una latente incomunicabilità lo allontana dal mondo reale. La finzione e l’illusione trasferite sul piano della realtà quotidiana sono una forma di fuga per Luca Cupiello e il simbolo di questa realtà illusoria in cui fugge il protagonista è concentrato nella figura del presepe che, in occasione del Natale, Luca sta cercando di costruire, come vuole la tradizione.
Il presepe: una dimensione perfetta, ma un’illusione
Eduardo colloca questo mondo di cartapesta in allestimento in camera da letto, in prossimità della finestra, non solo per avere più luce durante il lavoro, ma per un significato simbolico. Il presepe è l’aspirazione di Luca, esso costituisce proprio quella possibilità di fuga in un altro mondo, lontano e secondo lui migliore, dove si dirama un disegno di famiglia perfetta. Ecco allora che la finestra e il presepe danno accesso a quest’altra dimensione irrealizzabile. Il presepe assume proprio il profondo significato dell’unione familiare, forse l’illusione più grande alla cui distruzione Lucariello si piegherà: metafora di una realtà immaginaria, è anche la rappresentazione più clamorosa della finzione.
Esso è l’immagine della famiglia più pura dell’iconografia cristiana, la sua staticità è simbolica, nel tempo quella famiglia resta immutata nei valori che rappresenta ed è in questa staticità che Luca Cupiello si intestardisce a credere, illudendosi che il presepe possa essere la sua famiglia. Esso diventa un palcoscenico privato che egli gestisce come un burattinaio in cerca di una perfezione sempre più alta nel collocare nuove statuine o mutando la geografia del paesaggio. I personaggi della sua famiglia invece sono ben altro che statici: si muovono e cambiano fra una moltitudine di difficoltà, malintesi e paure. Luca non comprende e non comprenderà l’anacronismo del presepe e, per estensione, quello del suo ideale di famiglia e dei ruoli familiari. Alla sua esigenza di fuga si contrappone la dimensione terrestre dei figli: Nennillo e Ninuccia.
Casa Cupiello: una questione generazionale
Il primo che non ha altre aspirazioni se non il guadagno facile e la seconda che vuole liberarsi da un matrimonio d’interessi per seguire l’amore. Sarà questa sfasatura ideologica, questo gap generazionale, fra genitori e figli che contribuirà alla rovina di Luca. I figli sono distanti anni luce dall’intendere il disagio paterno. Ninuccia, spirito ribelle come il fratello, in preda a uno sfogo, distrugge violentemente il presepe, simbolo dell’unione familiare a cui è stata costretta, non curante dell’importanza che quel piccolo mondo in miniatura ha per il padre. Luca non si arrende nemmeno dinanzi al gesto della figlia: incapace di vedere nei cocci sparsi della sua opera un’allegoria della propria famiglia, ostinatamente, da escluso, continua ad escludersi ricostruendo pazientemente il suo amato presepe.
Tommasino dal canto suo si rifiuta di riconoscere la centralità della figura paterna, negando l’importanza e la bellezza del presepe. Quest’ultimo diviene allora, non solo la rappresentazione di una famiglia ideale irrealizzabile, ma l’espressione della crisi del personaggio e di quella sua ideologia familiare paternalistica, che Luca tenta invano di portare avanti per salvare la sua figura di pater familias talvolta con durezza, altre volte questo riconoscimento viene quasi elemosinato, come una richiesta d’aiuto, che però gli verrà dato solo quando sarà troppo tardi, in punto di morte, chiedendo al figlio se quel presepe gli piace. Per Luca il presepe, pur nel suo idealismo così anacronistico, è una risposta all’esclusione e rappresenta il suo sforzo di appartenere, di essere incluso e riconosciuto, parlando però un linguaggio che gli altri non potevano intendere, esemplificando in tal modo la tragedia dell’uomo moderno e della sua incomunicabilità e solitudine.
Soltanto nel secondo atto, conscio di essere costantemente tenuto all’oscuro dei fatti, Luca si ribella minacciando di rompere un piatto e il suo gesto, per la prima volta, è sintomatico di una protesta interna, profonda, quasi volesse improvvisamente frantumare non solo quello schermo invisibile che lo divide dagli altri personaggi, ma il gioco di finzione dietro il quale tutti si nascondono.
Il dramma, la rottura della finzione scenica e l’ingenuità di Lucariello di fronte alla disfatta
Luca Cupiello è completamente escluso – pirandellianamente – dal gioco familiare, non vuole sentire, e da un lato gli viene impedito dalla stessa famiglia di farlo, quelli che sono i drammi che si diramano intorno a lui. La figlia Ninuccia non ama il marito bensì Vittorio, e vuole scappare con lui; intanto il figlio, Nennillo ruba i soldi al povero zio. Vittorio, oltre ad essere l’amante di Ninuccia, è anche amico di Nennillo e, trovatosi la sera della vigilia di Natale a casa Cupiello, viene invitato a restare a cena da Luca, ignaro di tutto. Lì si consuma la tragedia.
Vittorio e Nicolino si affrontano e così crolla la fittizia serenità che aleggiava in casa. Mentre si consuma la tragedia Lucariello è preso dalla messa in scena dei Re Magi che portano i doni a Concetta, donna ormai esausta del modo di vivere sopra le righe dell’amato marito, la quale si trova al centro di una scena tragicomica ed osserva esterrefatta l’ingenuità del marito che persiste nel suo sogno natalizio.
L’ultima rappresentazione di Luca si rivela ben presto essere un atto disperato, prima della fine, con il quale egli cerca di trascinare in extremis la moglie nel mondo perfetto del suo presepe. Sarà proprio l’ultima finzione, dopo di che la realtà si scaraventa su Luca che non la regge, crolla e si ammala.
Il ribaltamento del presepe
Luca non parla più, è semiparalizzato, ed è un’ironia del destino che proprio adesso che tutti gli stanno intorno egli sia ancora più isolato nel suo silenzio e nell’immobilità del corpo. L’ultima scena, nel terzo atto, rappresenta una versione distorta della natività, quasi un presepe alla rovescia. Al centro non c’è un bambino appena nato, ma un vecchio morente; non ammirazione e doni ma paura e sensi di colpa. La domanda insistente – Niculino è venuto? – spiega che nella sua fantasia Luca cerca ancora di ricostruire il presepe familiare riunendo la figlia al marito.
“Luca Cupiello – dirà il dottore a Ninuccia nella prima stesura dell’opera – è sempre stato un grande bambino, che considerava il mondo un enorme giocattolo, quando ha capito che con questo giocattolo si doveva scherzare non più da bambino ma da uomo non ha potuto. L’uomo in Luca Cupiello non c’è. E il bambino aveva vissuto già troppo“. Eduardo poi elimina questo profonda riflessione nella versione definitiva, ritenendola troppo didascalica in quanto forniva una interpretazione precisa del personaggio, che invece egli desiderava lasciare al giudizio del pubblico.
Il personaggio di Luca Cupiello nasce da un profondo senso di nostalgia, quel sentimento che tutti noi proviamo ricordandoci della nostra infanzia e che nel periodo Natalizio viene colmata dal presepe. Questo fa di lui una figura assai più lirica di quanto sembri a prima vista, di fronte alla quale lo sfrontato e maleducato Nennillo che si ostina a trovar brutto il presepe sta come il simbolo dell’incapacità irridente di credere nei sogni altrui e di avere sogni propri. Così si chiude con una fine preannunciata, quella del sogno di Lucariello, che attaccandosi ad esso come per attutire una caduta, muore, si spegne, sicuro di aver sistemato le cose dopo aver dato la benedizione alla figlia e a quello che lui credeva essere Niculino ma che in realtà era Vittorio, sicuro di aver rimesso insieme quel presepe tutto rotto che finalmente piace a Nennillo.
La donchisciottesca fine di Lucariello
Il suo tragico rifugiarsi ancora una volta, per l’ultima volta, nell’ideale familiare del presepe rappresenta per Lucariello l’unico modo per proteggersi dalla realtà che lo ha colpito. “Ottenuto il sospirato ‘si’, Luca disperde lo sguardo lontano, come per inseguire una visione incantevole: un Presepe grande come il mondo, sul quale scorge il brulichio festoso di uomini veri, ma piccoli piccoli, che si danno un dà fare incredibile per giungere in fretta alla capanna, dove un vero asinello e una vera mucca, piccoli anch’essi come gli uomini, stanno riscaldando con i loro fiati un Gesù bambino grande grande che palpita e piange, come piangerebbe un qualunque neonato piccolo piccolo”. E, perduto dietro quella visione, annuncia a se stesso il privilegio: “Ma che bellu Presebbio! Quanto è bello!”. Ma altro è cadere in un pozzo perché si guardava un punto indeterminato, altro è cadervi perché ci si vedeva una stella.
Eduardo, alla ricerca costante di quella famiglia unita, nel 1946 scrive un’opera la cui eroina protagonista riuscirà nell’intento. C’è chi viene schiacciato dalla realtà e per salvarsi ha bisogno di costruirsene una di cartapesta e aspettare che il sogno cada per cadere insieme a lui, come nel caso del donchisciottesco Luca Cupiello; o anche chi non si fa schiacciare dalla difficoltà ma la affronta, la combatte per sopravvivere e per vincere la propria battaglia, mossa dall’unico sentimento che dà la forza di affrontare tutto, quello della maternità, nell’ottica di realizzare una famiglia perfetta, ancora una volta un presepe, ma questa volta reale, di carne, come è nel caso di Filumena Marturano.
Filumena Marturano, l’apoteosi del sentimento della maternità
Uno dei più grandi ritratti femminili della storia del teatro, un carattere completo, costruito nei minimi particolari attraverso un’introspezione continua e una ricerca negli angoli più nascosti dell’animo umano. Da prostituta a mamma, da mamma a moglie, da una famiglia inesistente ad una perfetta nelle sue umane anomalie, attraverso una storia di privazioni, di sofferenze, di apprensione e di dolore. Finalmente nel terzo atto il lieto fine per Filumena arriva, e arriva la sua vittoria. Domenico Soriano, amante occasionale, poi convivente e infine marito, si è piegato alla forza dell’amore per dei figli che finiscono veramente per essere tutti uguali e la donna, finalmente anche moglie, si scioglie in un pianto liberatorio.
Filumena Marturano è l’apoteosi del sentimento della maternità, che vince la miseria, redime dall’abiezione, supera gli egoismi umani, afferma il diritto all’uguaglianza tra fratelli, riunisce la famiglia, stimola il sentimento della paternità come purificatore di tutte le brutture sociali e nella mediocre ed egoistica personalità di Domenico l’istinto della paternità ha forza redentrice, che, sola, può portare quel piccolo uomo al livello morale della sua antagonista Filumena, sconfitta tante volte ma infine non vinta, tanto da riuscire finalmente a creare quel tanto sognato presepe.
Auguro a tutti i Lettori il dono più prezioso, quella serenità che solo una famiglia unita può dare, simboleggiata dal sacro presepe, e dedico questo scritto al mio adorato zio Carlo, illustre storico napoletano e mio mentore, del quale oggi cade il 100° anniversario della nascita.