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È Pasqua, tra lente e sfiziose tradizioni

“Cerchiamo di vivere in pace, qualunque sia la nostra origine, la nostra fede, il colore della nostra pelle, la nostra lingua e le nostre tradizioni”

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È Pasqua. Giovanni Paolo II dalla finestra della biblioteca del Palazzo Apostolico un giorno disse: “Non abbandonatevi alla disperazione. Siamo il popolo della Pasqua, e Alleluia è la nostra canzone“. Cerchiamo di vivere in pace, qualunque sia la nostra origine, la nostra fede, il colore della nostra pelle, la nostra lingua e le nostre tradizioni. Impariamo a tollerare e ad apprezzare le differenze. Rigettiamo con forza ogni forma di violenza, di sopraffazione, la peggiore delle quali è la guerra.

Nelson Mandela ci ha insegnato che la pace è un sogno che può diventare realtà, ma per costruirla bisogna essere capaci di sognare. Crediamo nella vita, e la vita stessa ci farà sognare.

Con questa doverosa premessa augurale, affinché il tragico momento attuale termini il prima possibile, desidero ora riportare il mio discorso a ricordi e argomenti di tradizione napoletana, religiosi, frivoli e gastronomici, conditi da speranzosi sorrisi, per non lasciare mai nell’oblio ciò che è stato, le nostre origini, che sono la fonte del nostro domani.

La Pasqua: a caccia di napoletane origini

Pasqua è pressappoco a Napoli come altrove: suoni di campane, uova, agnelli. Tuttavia, la mia città si distingue dalle altre per certe sue tradizioni, sempre caracollanti tra religione e materialismo: lo struscio e i sepolcri. Nel 1704, il 18 marzo, al tempo di Ferdinando IV, come si usava alla corte spagnola, il viceré Fernández Pacheco de Acun͂a emanò a Napoli, per questioni di ordine pubblico, un bando per bloccare la circolazione delle carrozze e dei cavalli in tutta la città, dal mezzogiorno del Giovedì Santo al sabato mattina, fino allo sciogliersi della Gloria, quando le campane suonano per la Resurrezione di Cristo. Tale disposizione si dimostrò quasi inattuabile per cui, successivi bandi limitarono il divieto alla sola via Toledo. Anche se ad onor del vero, già in data 7 aprile del 1610 in un’ordinanza il cardinale Doria, proibì che “carrozze, carri, portantine, percorressero le vie dal mezzogiorno del Giovedi Santo a tutto il venerdi, non parendo conveniente, mentre c’era il “Signore in terra”, che la gente andasse in cocchio o in sedie“.

L’insostenibile leggerezza dello struscio, il lento passeggiare

Nacque così lo struscio, lenta passeggiata che porta a strisciare (strusciare) i piedi sul selciato. Il termine deriva dal latino extrursus a significare quel rumore delle scarpe strisciate per terra o secondo altri degli abiti a strascico che le donne indossavano in quella occasione. Doverosamente, nei giorni prescritti, i bravi napoletani strusciano avanti e indietro per via Toledo, sostando dinanzi alle vetrine dei negozi in gara di magnifiche esposizioni, ed entrando nelle chiese che trovano sul loro cammino, per fare i sepolcri i quali, devono essere sempre in numero dispari, in commemorazione della sepoltura di Cristo, possibilmente tre, cinque o sette, evitando l’uno. Ogni chiesa prepara il suo sepolcro: uno spazio delimitato da transenne e da damaschi drappeggiati e gallonati, al centro del quale in terra è sovente deposto un Cristo giacente attorniato da vasi pieni di grano verde, da trecce di palme bianche, da tappeti di fiori e da ceri. Davanti al sepolcro la folla sosta compunta in adorazione e sfila poi lentamente. Uscita nella strada, la gente ricomincia a strusciare ripresa dal lato mondano della manifestazione, fermandosi con gli amici, e giudicando i vestiti inaugurati per l’occasione.

I napoletani, si sa, ne sanno una più del diavolo, e non solo fasciavano gli zoccoli ai cavalli per evitar rumore, ma visto che la mattina del giovedi il divieto non scattava ancora se non a mezzodì, vediamo cosa accadeva, grazie alla coinvolgente descrizione d’ambientazione settecentesca dell’erudito Fabio Colonna di Stigliano:

La mattina del giovedì santo era ancora ammesso per Toledo il transito delle carrozze. Le dame concorrevano con gli equipaggi più sontuosi, coi cavalli più belli, con le livree più ricche. Vestivano di nero, un po’ scollate, con artificiose acconciature di capelli, e magnifiche gioie. Ma nel pomeriggio dello stesso giorno e per tutto quello seguente, essendo proibito il passaggio delle carrozze, gli uomini andavano a piedi, le dame in portantina; le più belle portantine del mondo, eleganti, soffici, dorate, intagliate, stemmate, miniate. La precedevano e la seguivano domestici volanti in gran livrea; ai fianchi andavano i paggi, discosti però tanto da lasciar ben vedere la portantina, nella quale la dama passava, alteramente seduta, visibile, attraverso le grandi lastre, tutta intera. Così il sacro si mesceva al profano!

Pasqua non sarebbe Pasqua se…

Soddisfatti quelli religiosi e mondani, il giorno di Pasqua, dopo la rituale messa, si assolvono i non meno tradizionali doveri gastronomici: Pasqua non sarebbe Pasqua se mancassero… ma diciamolo con un ignoto quanto gustoso poeta della fine dell’Ottocento:

Pasca vo’ ‘a menestella ‘mmaretata

cu ‘a gallenella, ‘a ‘nnoglia e ‘e saciccielle,

‘ll’ainiello a ‘o furno, ‘o ppoco ‘e spezzatiello.

‘a felluccia ‘e ricotta e ‘e supressata.

Quatt’ova toste, na cimm”e nzalata,

na carcioffola e ‘o fiasco ‘e maraniello;

po’, se sape, ‘a pastiera, ‘o casatiello,

‘a pres ‘e roce e na pres ‘arraggiata.

Traduco per il Lettori non di lingua: “Pasqua vuole la zuppa di carne e verdura, con la gallinella, la salsiccia farcita di intestini di maiale e il salsicciotto; l’agnello al forno e un po’ di spezzatino, la fettina di ricotta e di soppressata. Quattro uova sode, una cima di insalata, un carciofo, e il fiasco di vino Maraniello; poi, si sa, la pastiera, il casatiello, e per finire un bicchierino liquore dolce e un amaro“.

La Pasqua è anche a tavola

Aggiungiamo che alla minestra maritata, oggi un po’ in disuso, si può supplire con i ravioli in brodo ripieni di carne macinata e prosciutto (da me preferiti), o i tagliolini in crostata, ma tutto il resto è sacrosanto, non può mancare. Non piace la pastiera? Può accadere, il sapore è intenso, tutti i gusti son gusti, ebbene si mangia lo stesso: è un dovere al quale non ci si può sottrarre. E, se incoraggiato dal detto Natale con i tuoi e Pasqua dove vuoi, qualcuno decide di passare le feste oltre l’arco del golfo e delle isole, lasciandosi risolutamente indietro le tradizioni quali inutili sentimentalismi, è certo che nel giorno di Pasqua, diventerà preda di un’acuta nostalgia. Gli mancherà quel buon salame di casa sua che si accorda così bene con le uova sode e il vino rosso, rimpiangerà il capretto al forno con la punta d’aglio e il rosmarino, lo spezzatino con le uova e i piselli, i carciofi fritti, e la tenera e fresca lattuga incappucciata. Il rimpianto si farà ancora più acuto per la pastiera e per quel profumo di fiori d’arancio – si dice che di quel dolce la sirena Partenope faceva pranzo e cena -, per le violaciocche al centro della tavola, per le uova colorate, per tutte quelle care consuetudini delle quali ha creduto di poter fare a meno. E giura che in avvenire Pasqua la passerà sempre con i suoi.

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