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Dolci tradizioni perdute tra una lievitazione istantanea e l’altra

Quand’anche l’ars culinaria è vittima dei mala tempora

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dolci tradizioni

Mala tempora currunt per le tradizioni, anche in cucina

La parola tradizione deriva dal latino traditio, e questa a sua volta dal verbo tradere, che significa consegnare o trasmettere. La tradizione è la trasmissione di costumi, comportamenti, ricordi, simboli, credenze, leggende, per le persone di una comunità e ciò che viene trasmesso diventa parte integrante della cultura. Le tradizioni si perdono purtroppo; affinché questo delitto si compia, il reo può adoperare due metodologie. Dimenticarle e lasciarle nell’oblio, oppure perpetuarle quotidianamente sì da far perdere loro il vero significato. Sinceramente non vi so dire quale meriterebbe punizione maggiore. Si può parlare di tradizione anche pensando all’ars culinaria, e in particolare ai dolci.

Le tradizioni che sanno scandire il tempo dell’esistenza

Purtroppo negli ultimi decenni, a causa della frenesia delle giornate lavorative, dell’industrializzazione di tutto e della voglia di apparire più che di fare e di essere, molte di esse sono state abbandonate, anche in città che da sempre vivono della loro storia. I dolci, e con loro gli artigiani delle materie prime, scandivano i tempi e le feste dell’anno, al pari dei frutti che la natura dispensava secondo le stagioni e le vicende meteorologiche, oltre che secondo le diversità climatiche rispetto ad altri paesi. Così dunque, come si aspettavano le ciliegie in primavera e le castagne e le noci in autunno, così si attendevano e si gustavano le “zeppole” nella festività di san Giuseppe, il 19 marzo: giorno in cui, almeno nella mia città, si regalavano giocattoli ai bambini, ricordando che il padre putativo di Gesù era falegname, e in quel tempo la massima parte dei giocattoli era di legno e fabbricata appunto da falegnami. Quale soddisfazione si prova allorché, leggendo il diario del Viaggio in Italia di Goethe, vi si trova, proprio sotto il 19 marzo 1787, la descrizione della preparazione e vendita delle zeppole a Napoli!

Colombe che volano a Ferragosto e panettoni che lievitano in primavera

Oggi nei supermercati, imbustati e insapore, si trovano tutti, o quasi, i dolci della tradizione in qualsiasi momento dell’anno. Le colombe pasquali svolazzano mentre ancora panettoni e pandori fanno bella mostra sugli scaffali; la pastiera, un tempo rigorosamente dolce di Pasqua per ovvi motivi simboli, dettati dai suoi ingredienti (grano e fiori d’arancio) metafore della Resurrezione, la propinano anche a ferragosto; per non parlare di dolcini di fattura più piccola che possono essere acquistati dal tabaccaio! Che senso ha tutto questo? Oserei dire… che gusto ha tutto ciò? Credo che così facendo si rischia di assaporare soltanto superficialità e ignoranza. Un tempo si dava cura ai particolari, attenzione agli ingredienti, si dosava il cibo, carezzandolo di continuo, si seguiva la preparazione e la cottura con la stessa premura che una madre dona al proprio figlio, si aspiravano odori che poco a poco si spandevano per la casa, per il quartiere, per l’intera città. Ora, apriamo un pacchetto di dolci e al massimo, se annusiamo bene a mo’ di setter irlandese, riusciamo a sentire l’acre olezzo di petrolio contenuto nell’involucro plastificato. Le tradizioni, di ogni genere, per essere mantenute hanno bisogno di tempo, e l’uomo contemporaneo ne ha poco (dice lui, io non sono affatto convinto); orbene, e se a quest’uomo così indaffarato manca il tempo, non sarebbe più ragionevole sfruttarlo meglio, assegnando allo stesso, come facevano i nostri saggi nonni, l’importanza che merita, affinché si possa riassaporare nuovamente la nostra cultura millenaria, affascinante e magica, dalla quale ci andiamo sempre più allontanando? Che la forza e il coraggio proteggano le pasticcerie storiche d’Italia rimaste in attività, fucine delle nostre radici.

Una tradizione incapace di rispettare il suo tempo, non è una tradizione

Il Manzoni nei Promessi sposi, dopo che Gertrude, ormai rassegnata o piuttosto vinta, ha chiesto di vestire l’abito monacale, e la badessa le ha risposto schernendosi con la crudele ipocrisia vigente, dice che allora, nel frastuono delle congratulazioni ed acclamazioni, vennero “gran guantiere di dolci che sono presentate prima alla sposina, e dopo ai parenti“. L’episodio aveva maggiore proporzione nella redazione originaria del romanzo, allora intitolato, com’è noto, Fermo e Lucia, corrispondente alla più lunga durata della storia di Gertrude (che dapprima era Geltrude). Infatti, dopo aver raccontato che “la badessa pregò gli ospiti di riguardo di aggredire alcune cosucce, che ella faceva porre nella ruota da una conversa, la quale dètte il moto alla ruota, e ne rivolse la bocca verso il parlatorio esteriore“, l’autore continua facendo ricorso non solo alla conoscenza storica, ma anche alla sua esperienza personale: “Due secoli e più sono passati da quel giorno memorabile: così che noi crediamo di potere ormai senza indiscrezione manifestare che la ruota, rivolgendosi, offerse agli sguardi ed alle mani degli ospiti un gran bacile di dolci squisiti, fabbricati di propria mano dalle suore, malgrado gli ordini ecclesiastici, in allora recenti, che proibivano loro assolutamente un tale esercizio. È da credersi che questi ordini non ottenessero un grande effetto in progresso di tempo, giacché questa fabbricazione durò fino ai giorni nostri; il che non si accenna qui per censurare con indiscreta severità tutte le monache che si succedettero in questi due secoli; una tale censura sarebbe anzi, a dir vero, non solo indiscreta, perfidamente ipocrita, perché chi scrive ha mangiato egli stesso i dolci squisiti di fabbrica monastica, quando ha potuto averne. Si parla soltanto di questo fatto, perché può dar luogo ad una osservazione piccante: che vi ha talvolta delle leggi che non sono eseguite£. Con l’abituale sottile ironia Manzoni concludeva il richiamo alla sua personale esperienza di gustatore dei dolci di fabbricazione monastica.

Ancora una volta, la lectio di Manzoni

Non saprei dire se anche a Milano, ma, a Napoli perlomeno, i cosiddetti “dolci di monastero“, soprattutto fatti nelle festività natalizie, rientrano nel novero delle cose, che, già purtroppo negli anni Cinquanta, cominciavano a diventare null’altro che un più o meno labile ricordo d’un passato, che oggi, dopo le guerre contemporanee – e non soltanto quelle in armi – distruttrici di tradizioni, è sempre più lontano ed evanescente. Ma, prima che gli uomini di questa nostra generazione consacrassero il meglio della loro industriosità a annebbiare tradizioni e culti, quanta attività, durante le feste natalizie, nei pochi monasteri napoletani superstiti, vi era per preparare, secondo ricette complicate, tramandate di generazione in generazione e tenute gelosamente segrete, saporitissimi sosamelliroccocò, mostacciuoliraffiuolipaste reali di diversa fattura e colore, e via enumerando! Invito il lettore ad assaggiarli, ma si sbrighi, prima che qualche antica pasticceria si trasformi in un supermercato, cancellando un dolce pezzetto di storia! L’amarezza che si prova di fronte al tramonto di certe cose buone della vita e per la vita è più amara di quanto si possa immaginare. Quelle cose buone si chiamano tradizioni, le quali non consistono nel serbare grigie ceneri, ma nel mantenere viva una fiamma che dà vita all’amore per il futuro. Fortunato chi avesse avuto una sorella o una zia monaca: perché colui si poteva ben pavoneggiare di mangiare e offrire agli amici non già “dolci di dolcieri” – che per noi oggi sarebbe già il non plus ultra -, come si diceva con una punta di dispregio, ma, come si soggiungeva con gran compiacimento, “dolci di monastero“.

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