Attualità
Disperazione e Speranza: i due volti della Guerra
Le società umane, come gli individui, diventano qualcosa solo grazie alla libertà, e trovare quelle condizioni da soli, significa vivere in libertà, in pace, non in guerra.
In questi tristi giorni di guerra, di angoscia e di morte, le riflessioni si rivolgono ad un passato che non avrebbe dovuto ripetersi più. La speranza è quella di non dover leggere, su qualche futura opera, una epigrafe simile a quella che Erich Maria Remarque scrisse per il suo Niente di nuovo sul fronte occidentale, uno dei più grandi libri mai scritti sulla carneficina della Prima Guerra Mondiale: “Questo libro non vuol essere né un atto d’accusa né una confessione. Esso non è che il tentativo di raffigurare una generazione la quale – anche se sfuggì alle granate – venne distrutta dalla guerra“.
La memoria storica: l’ancora di salvezza di un precario presente
Tra gli strumenti per aiutare il ritorno della pace vi è senza dubbio la memoria storica: ci riporta alla cultura dei grandi pensatori che hanno posto la democrazia e la libertà come basi della società umana. Il passato deve rischiarare l’avvenire, e aiutare il nostro spirito ad avanzare e non a ritornare nelle tenebre. Gli insegnamenti e le letture sono indispensabili per suscitare passioni forti: senza la passione dell’ideale la libertà muore e “l’arca santa” diviene facile preda della bonaccia. Le democrazie occidentali hanno il dovere di preservare tali valori, e non arrendersi mai alle prepotenze e ai soprusi. Cedere significherebbe perdere la libertà, ed essa, che per Alexis de Tocqueville è un valore morale prima che politico, si salva solo se si fa appello alla coscienza dell’individuo, alla parte più nobile dell’uomo. In una sua epistola del 17 settembre 1853 scrisse a Francisque de Corcelle:
Le società umane, come gli individui, diventano qualcosa solo grazie alla libertà, e trovare quelle condizioni da soli, significa vivere in libertà, in pace, non in guerra.
Il ruoto di patate: una fragile speranza durante la Guerra
Ciò che stanno patendo gli Ucraini, gli orrori della guerra, purtroppo fu provato durante la Seconda Guerra Mondiale da molte popolazioni, tra le quali quella napoletana, vittima di oltre cento bombardamenti. Erano i primi giorni di settembre del 1943. La povertà e la miseria dilagavano. Mangiare non era più una consuetudine, bensì una scarna probabilità. Mancava ogni bene primario. Un ragazzino, di poco più di 10 anni, vestito d’un abito che lasciava intravedere più pelle di quanti brandelli di stoffa era formato, tornava verso casa, a passi svelti, a tratti saltellanti tra i cumuli di macerie che incontrava sul suo cammino. Del volto bianco come la cera, le ossa spigolose facevano da contraltare a un paio d’occhi nerissimi, profondi, che guardavano innanzi, e già immaginavano la tavola apparecchiata di sogni dei suoi fratellini. Sulle braccia esili, ma ben salde, poggiava un gran ruoto di patate al forno, avvolto da un panno che serviva a far mantenere il calore. Sorrideva felice: era latore di una speranza, almeno quella sera la fame sarebbe stata vinta.
La madre era riuscita, dopo una marcia solitaria di quasi 20 chilometri verso isolate campagne, a comprare, in seguito ad una non facile trattativa, a peso d’oro due chili di patate da una contadina. Giunta sfinita a casa, – a quello che era rimasto di casa -, le aveva pelate, tagliate velocemente e messe in un ruoto, consegnandolo al figlio maggiore affinché le portasse dal fornaio per farle cuocere. Quella sarebbe stata la cena, dopo giorni di digiuno, per l’intera sua famiglia, composta da sei figli piccoli, compreso il “maggiore” di 10 anni. Del marito non si avevano più notizie da quando fu fatto prigioniero in Africa, nella battaglia di El Alamein. Salvatore, questo il nome del “maggiore”, era fiero e orgoglioso che tra le sue braccia c’era la vita della sua famiglia. Avrebbe difeso quel tesoro con ogni mezzo. La strada era bagnata, pioveva. I vicoletti napoletani si erano trasformati in agitati ruscelli; si erano formate pozzanghere di fango e di polvere proveniente dai palazzi crollati. Tra uno zig-zag e un saltello per evitare sassi e pezzi di cingolati, il ragazzino inciampò. Perse l’equilibrio, cadde, e il ruoto ancora caldo, pieno di speranze, scomparve dentro una grossa buca d’acqua sporca e profonda.
La disperazione in tempi di Guerra, ieri e oggi
In quell’istante, si umanizzò l’Urlo di Munch sul viso del povero Salvatore. Un grido lancinante di disperazione, di solitudine, di mortificazione e d’angoscia fu lanciato dal ragazzino, che si teneva con le mani il volto bagnato più di lacrime che di pioggia. Era in ginocchio, ai bordi della infernale buca nera, guardando impotente affondare la speranza, e con essa la sua vita, e quella dell’intera sua famiglia. Scappò via come un fulmine, con quella poca forza che ancora aveva in corpo, e sparì tra la polvere. Subito dopo, gelida, suonò la sirena dell’allarme aereo. Nessuno seppe più nulla di quell’anima nobile, martire di quanto oggi, ottant’anni dopo, accade in Ucraina. Così, con questa storia vera, di vita vissuta, il mio professore di storia e filosofia, fece comprendere l’atrocità e la disumanità della guerra. Oggi, ha 90 anni, e quell’urlo non lo ha dimenticato, perché le ferite dell’anima non si cicatrizzano mai. Sanguineranno per tutta la vita.