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Che cosa significa la parola “sportività”: a caccia di una virtù corrotta dai mala tempora
Coppi e Bartali: due esempi di rivali ma anche di grande sportività una virtù che non conosce odio
La virtù della sportività
Che cos’è la sportività? Viviamo in un’epoca in cui l’assolo sembra prevalere decisamente sul vivere corale. Sebbene si sia ormai affermata – a parole sicuramente, nei fatti non sempre confermata – la necessità di prendersi cura dei beni comuni e soprattutto del prossimo, risulta però impossibile senza che si faccia appello a quelle virtù che riducono le pretese del singolo a favore dell’armonia dell’insieme.
Alle origini dello sport, l’uscire “fuori porta”
Qualcuno un po’ avventurosamente fa risalire la parola sport al latino deportare, cioè uscire fuori porta, al di fuori delle mura della città, quasi se metaforicamente volesse significare andare oltre la realtà quotidiana, fare un qualcosa extraordinarius, al di là dell’ordinario, tenendo presente che poi l’aggettivo straordinario ha assunto il significato di “maggiore del solito o del comune, quindi grandissimo, singolare, eccezionale“. Dal francese antico desport nel 1300 in Inghilterra si diffuse il termine disport, poi abbreviato nel 1532 in sport, con l’accezione originaria di divertimento, diporto, che sopravvive solo nell’espressione “fare qualcosa per sport”. Implicita quindi appare l’idea che il divertirsi sia un abbandonarsi, un distrarre sé stesso da qualcosa che è viceversa essenziale alla definizione del proprio essere quotidiano. Si lascia la dimensione della quotidianità per entrare in una dimensione diversa, nella quale ci si immerge.
Che cosa significa essere “sportivi” oggi, sul campo e nella vita
Oggi invece indica quell’insieme di gare ed esercizi fisici individuali o di gruppo che vengono praticati sì per svago, ma in particolare per competizione e intorno al quale può ruotare un consistente giro d’affari, e sappiamo bene che dove c’è il danaro le virtù faticano a rimanere a galla.
Qui però ci interessa il modo in cui si dovrebbe fare lo sport, cioè con sportività, virtù antica come la lealtà, che non sempre è presente tra gli atleti, tanto è che quando compare, appare a noi alla maniera di un qualcosa che somiglia ad una cometa, una rarità. Sportività, lealtà, parole dal suono dolce, estremamente eufoniche, eppure a un passo dal diventare desuete: non capita spesso di usarle nel linguaggio di tutti i giorni, forse perché non conoscono vie mediane. O dentro, o fuori, o sei una persona leale, e quindi affidabile, oppure hai una tendenza a vagare nel torbido, antisportiva.
Non accettando il compromesso, la lealtà in qualche modo plasma il nostro carattere, divenendo un architrave per la nostra personalità. Sportività è non nascondersi, non attendere che le nuvole grigie si posino sull’avversario, essere fedeli all’onestà e non all’utile, allontanare il torvo spirito guerresco che nulla ha in comune col duellare a viso aperto nelle giostre medievali. Nelle contese il cavaliere col suo destriero che voleva intervenire per vincere e ottenere come premio la liberazione di una persona che riteneva ingiustamente condannata, poteva presentarsi o con la visiera dell’elmo abbassata, condizione che lo rendeva irriconoscibile, o con la visiera alzata, che faceva vedere il suo viso. Era questo il gesto più onorevole: mostrare il volto e la sua anima nobile.
La mano tesa di Vingergaard
Passando dal cavallo alla pur elegante bicicletta, all’ultimo Tour de France, nella salita decisiva della 18° tappa la Lourdes-Hautacam, abbiamo assistito allo splendido gesto di sportività da parte della maglia gialla e trionfatore, il danese Jonas Vingegaard. Il rivale in classifica, Tadey Pogacar, è all’inseguimento del gruppo di testa, ma disegnando male una curva lungo la discesa dopo il Col de Spandelles, cade.
Pogacar perde secondi preziosi, Vingegaard potrebbe approfittarne per andare in fuga, ma decide di aspettare, per sfidare il rivale ad armi pari. Attende che si rialzi, gli dà la mano, i due tornano in sella e ripartono. Una volta sui pedali, la stretta di mano, simbolo di quella virtù, prima di riprendere il duello spalla a spalla. Questa immagine ne ha ricordata un’altra leggendaria, riportandoci agli anni del dopoguerra, quelli del ciclismo eroico, quelli della rivalità fra Fausto Coppi, l’Airone, come lo definì Mario Oriani, e Gino Bartali, per tutti Ginettaccio.
Esempio di sportività: la borraccia di Coppi e Bartali
L’Italia sportiva era divisa in due da quel grande dualismo. I coppiani, amanti del piemontese, dal carattere chiuso, dallo sguardo sempre triste, che non alzava, se non raramente, le braccia al traguardo. I bartaliani, seguaci del modo schietto e diretto del campione toscano, che non la mandava mai a dire a nessuno. Era il 4 luglio, si correva la 10ª tappa la Losanna-Alpe d’Huezsul del Tour del 1952 vinto dal Campionissimo. Poco prima di girare al Col du Télégraphe, al passaggio sul Galibier, fu immortalato in un’istantanea del fotografo Carlo Martini l’attimo di sportività, di umanità, di lealtà: lo storico scambio di borraccia fra i due campioni.
Coppiani e bartaliani: chi l’ha ceduta a chi?
Per anni si è discusso su chi passasse la borraccia a chi. Naturalmente i bartaliani affermavano che fosse stato Gino a darla a Fausto, suffragati dal fatto che Coppi avesse il portaborracce vuoto e quindi fosse privo di bevande. D’altro canto i coppiani sostenevano che Coppi l’avesse passata a Bartali. In effetti la borraccia è propriamente una bottiglia che quasi sicuramente Coppi ha avuto da uno spettatore. Essendo il ciclista che in quel gruppetto procedeva per primo è logico pensare che sia stato lui a cederla a chi lo seguiva e inoltre lo sguardo di Bartali è rivolto alla bottiglia nell’atto di afferrarla.
Lasciamo pure così infiocchettato l’affascinante mistero ai posteri, a noi qui interessa il gesto dell’atleta sportivo, virtuoso.
La sportività: l’arte di essere rivali senza cattiveria
Il vero significato dello sport: essere rivali senza odio. Ogni impresa sportiva è un simbolo, diventando puro insegnamento di vita quando è accompagnato dalla sportività. Pindaro, il poeta greco antico, tra i maggiori esponenti della lirica corale, canta un inno alla vita, ai dolori, alle speranze, al coraggio degli uomini, e gli atleti, le loro prodezze e gli allori, le loro debolezze, tutto ciò che nello sport è vittoria e sconfitta, e la lotta, l’ebbrezza, l’amarezza, le lacrime, il sudore, il sangue, le grida di trionfo delle Odi non sono altro che simboli della vita degli uomini, delle generazioni, dei popoli.
Fra Coppi e Bartali, Vingegaard e Pogacar, o un Tizio e Caio qualsiasi ma virtuosi, forse il poeta non avrebbe visto altro che quel gesto “sportivo”, simbolo delle lotte, delle sofferenze, dei sacrifici e delle speranze che le nostre generazioni offrono alla libertà, alla pace e alla felicità degli uomini e delle nazioni.