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Ad maiora, cari nuovi amministratori

La sempre attuale lezione senechiana

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Sino a prima delle ultime elezioni di sindaci e governatori, tanti, troppi articoli ho letto dedicati alla sciagurata incapacità degli amministratori di maggioranza delle regioni italiane. Mi sono chiesto se finalmente fossero state trovate ora le parole giuste, per scuotere i nuovi nostri paladini dalla olimpica indifferenza, che solitamente usano per lo sdegno che manifesta nei loro confronti la gente. 

Purtroppo, noi cittadini italiani non siamo nelle condizioni di Giulio Cesare quando “trattava” con i suoi funzionari.

Per multum cras, cras, crebro dilabitur aetas

L’istituto del ripudio degli “eletti” non è previsto dalla legge. Quelli sono e quelli devono rimanere sino alle prossime elezioni, cioè sino a quando, non avendo altri in offerta da scegliere, li voteremo come fossero uomini dabbene di nuovo. Siamo perfettamente d’accordo che il principio della moglie di Cesare, Pompea, è stato da tempo sostituito, in virtù dell’articolo 27 comma 2 della Costituzione, da quello per cui si è “non colpevoli” sino alla sentenza definitiva della condanna. Ma l’articolo 27 vale per le imputazioni di reato. Come la mettiamo con la “correttezza” amministrativa, con l’elementarissimo dovere morale di agire secondo i principi del buon padre di famiglia e, se è il caso, di farsi da parte?  

Di Jacques-Louis David – http://www.artrenewal.org/asp/database/art.asp?aid=40&page=3, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=4870509

II latinorum fa sempre una certa impressione, anche agli uomini politici. Sentirsi sbattere in faccia un detto di Seneca sulla vita che scorre inesorabile mentre si continua a differire (dum differtur, vita transcurrit) potrebbe indurli, non dico ad emendarsi, ma per lo meno a chiedersi come mai il ben noto filosofo si sia occupato, circa duemila anni fa, di loro e delle miserevoli beghe connesse. A scanso di noiose ricerche da parte dei vari assessorati regionali alla cultura, mi affretto a chiarire che la celebre frase si legge nella prima delle 124 lettere che il Cordobés (Seneca era infatti, come il meglio noto torero, di Cordova) scrisse a Gaio Lucilio, un vivace amico e discepolo di Napoli, o forse (siamo lì) di Pompei. Non bisogna traccheggiare, non è lecito rimandare a domani ciò che si può e si deve fare oggi, è turpissima vergogna starsene con le mani in mano per negligenza o peggio per motivi poco limpidi. 

La sempre attuale lezione senechiana

Chi si comporta diversamente altri non è che un disonesto. Ecco l’insegnamento di Seneca a Lucilio: insegnamento sul quale, nel mio piccolo, concordo pienamente. Ma come? Arnobio, il cristianissimo Arnobio del III secolo non ha detto, a commento di un salmo biblico che quod differtur non aufertur, che ciò che si rimanda non lo si distrugge? Certo che lo ha detto, ma lo ha detto per sostenere che rinviare le cose non significa eliminarle, bensì accumularle in pesanti arretrati. Il tutto a danno della soluzione urgente di gravi ed annosi problemi. Vedete, signori amministratori locali, una sbirciatina alle lettere di Seneca a Lucilio, anche spingendovi al di là della prima, vi tornerebbe assai utile. Quanto meno per rendervi conto del fatto che certi giudizi severi sul vostro modo irresponsabile di operare non dipendono da malanimo personalistico, ma derivano dalla fede che ancora qualcuno tra noi nutre in certi valori di antica data, che voi evidentemente ignorate. E non mi obiettate, singolarmente presi, che le difficoltà da superare non dipendono da voi, ma dagli altri gruppi o sottogruppi di varie e incerte coalizioni. La lettera numero 22 dell’epistolario senechiano vi spiega per filo e per segno, magari un po’ drasticamente, che l’uomo saggio ed onesto, quando non ce la fa più a tirare avanti nella vita pubblica, se ne deve andare. Se ne deve andare in un modo o nell’altro – censeo aut ex ista vita tibi aut ex vita exeundum – almeno così si pensava intorno al 65 d. C.!

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