Attualità
Perché l’abbandono è il peggior crimine
L’abbandonano di un bambino: un omicidio morale e il peggior crimine
L’abbandono di minori: un caso a Roma, poi a Monza
Una tragedia sfiorata a Roma giorni fa. Un bimbo è stato abbandonato in un’autovettura lasciata al sole, in sosta nel parcheggio esterno della fermata della metropolitana di Anagnina. Il piccolo sventurato è scampato alla morte solo grazie alla segnalazione tempestiva di alcuni passanti e all’intervento delle forze dell’ordine. Qualche ora dopo la nefandezza romana, ho appreso che una neonata è stata ritrovata in una scatola nei pressi dell’ospedale san Gerardo di Monza. Pur sfiorando soltanto la tragedia della morte, i due piccoli sono stati colpiti da una tragedia non meno grave. Una tragedia che si porteranno dietro per tutta la vita: quella morale dell’abbandono.
L’unica evoluzione è quella tecnologica
Da molti anni, in questa epoca di progresso tecnologico che pare non conosca più limiti, persiste e anzi si aggrava invece il regresso morale. Disumanità che si può enumerare nei vari casi di abbandono dei neonati, di maltrattamenti dell’infanzia, di rapimenti dei piccoli a scopo di vendita o altri ancor più esecrandi. Vogliamo qui considerare solo il primo caso. Per quanto perverso, appare come il meno spietato. Questo purché l’abbandono avvenisse con quegli accorgimenti di pietà che una volta servivano a impedire la morte di un neonato.
L’abbandono nella letteratura: il più antico Mosè
Così si abbandonavano i neonati sui gradini di chiese o alla porta di conventi dove la pietà altrui avrebbe accolto l’ignoto frutto. La letteratura è costellata di questi fortunosi abbandoni e ritrovamenti. Dalla mitologia greca e dalla Bibbia alla commedia nuova del IV secolo a. C., in novelle e racconti e fino a romanzi ottocenteschi, e il caso più antico e pietoso e non pertanto meno romantico è quello del piccolo Mosè. Il piccolo abbandonato (ma al fine di salvarlo, e con tanta cura) in riva al Nilo, e raccolto nientemeno che dalla figlia del faraone d’Egitto.
Una questione di pietà
Largamente consentita dal diritto romano, l’esposizione dei neonati venne poi vietata nell’Impero cristiano, e fu appunto la pietà cristiana (come probabilmente altrove quella di altra fede) che alla fine del Medio Evo cercò di dare una soluzione organizzata al problema, evidentemente cresciuto con lo stesso aggravarsi del moralismo religioso. Ciò si verificava in ogni parte e segnatamente a Firenze, dove già nel secolo XIII esisteva un ospizio destinato ad accogliere anche trovatelli. Ma poi nel 1419 vi sorse, per iniziativa del comune, lo Spedale degli Innocenti, che accolse trovatelli ed altri bambini di famiglie povere.
Ma mi piace qui scegliere, sperando sin d’ora in un Vostro consenso, come riferimento Napoli, città non solo a me meglio conosciuta, ma nota altresì a tutti per l’eccezionalità dei suoi aspetti sociali e dei connessi problemi, nonché per una pietà che nei secoli l’ha riempita di chiese, di conventi e di istituzioni pie, volte a soccorrere nei modi e con i mezzi del tempo le disgrazie della vita, in tutte le forme e gradazioni, dalla indigenza dei “poveri vergognosi” al conforto dei condannati a morte, e così pure la sopravvivenza e il primo sostentamento dell’infanzia abbandonata.
Storie da Napoli: via dell’Annunziata
Chi passa, ancora oggi, in Napoli per l’attuale via dell’Annunziata, superato l’ingombro di mobili esposti in vendita a buonissimo mercato, verso la fine trova a destra la chiesa vanvitelliana che, con il campanile e l’annesso ospizio dà il nome alla strada. Toponimo che forse dalla prima fondazione della chiesa sostituì quello di Mal passo, che probabilmente era, più che una indicazione toponomastica, un avvertimento di pericolo per chi incautamente si avventurava in quel luogo. Ma la prima chiesa stava al posto dell’altra non lontana chiesa della Maddalena, fondata, col monastero, dalla regina Sancia moglie di Roberto d’Angiò nel 1324.
La chiesa dell’Annunziata
Volendo la regina ingrandire il monastero, ottenne dai governatori la permuta con altra chiesa o cappella già fondata dai fratelli Niccolò e Giacomo Scondito. Entrambi erano tornati da una lunga prigionia in Toscana per grazia riconosciuta dalla Madonna, “annunziata” loro dall’arcangelo Gabriele. Inoltre i due Scondito istituirono pure una congrega di Battenti e ripentiti, cui furono ascritti molti principi e altre nobili persone. La chiesa, chiamata dell’Annunziata per il sopra detto annunzio, fu poi riedificata verso il 1540 con il connesso ospedale. Chiesa poi distrutta da un incendio nel 1757, donde la ricostruzione, voluta dal re Ferdinando IV di Borbone, per opera di Luigi Vanvitelli e del figlio Carlo.
La consistente dotazione della regina Sancia e le altre donazioni di Margherita di Durazzo, fecero sì che la chiesa e l’ospedale fossero poi sempre considerati di regio patronato. Ciò permise ai governatori di attribuire all’ospedale, detto Santa Casa dell’Annunziata, tra le altre opere di pietà, l’accoglienza degli infanti abbandonati. Il che voglio riferire con le stesse parole usate da Giovan Battista Chiarini.
“I governatori del pio luogo [..] avendo considerato i molti e notabili inconvenienti che alla giornata accadevano pei parti clandestini di persone povere, ché sovente bambini neonati trovavansi abbandonati in angoli reconditi delle strade o nelle sentine o in altri luoghi ancor peggiori, anzi spessissimo divorati dai cani, con abbominevole spettacolo del popolo, a fine di ovviare ad un fatto cotanto contrario all’umana natura, destinarono accosto alla Chiesa ed allo spedale un luogo, colla Ruota, dalla parte della pubblica strada per ricevervi le innocenti vittime dell’altrui traviamento, per esservi nutricate ed allevate per conto della stessa Santa Casa”.
Il monumento alla pietà napoletana
La ruota degli esposti, a somiglianza di quella che permetteva l’unico modo di comunicare con i monasteri di clausura, consisteva in una bussola di legno girevole, munita di portello aperto all’esterno dell’ospizio, in modo che si potesse “esporre” l’infante senza essere visti.
La Casa dell’Annunziata, non solo per questa particolare funzione ma per altre sue opere di assistenza, era dunque celebrata, ancora pochi anni prima che cadesse il regno borbonico delle Due Sicilie, come “il monumento massimo della pietà de’ Napolitani, che tanto onora la nostra Metropoli, e che per santità di origine, per vetustà di fondazione, per magnificenza di edifizii, per larghezze profuse da Papi e da Monarchi, e per bontà d’amministrazione e d’interna disciplina non ha l’uguale in Italia, e che può ben stare a fronte di ogni altro consimile stabilimento del resto d’Europa“. Ma c’era stato chi, circa un decennio prima, aveva denunciato invece le deficienze e le vergogne dell’assistenza che il governo borbonico tollerava che vi si praticassero. Era Antonio Ranieri, nel suo romanzo Ginevra o l’orfana della Nunziata, pubblicato nel 1839.
Nell’edificio, cui si accede dal campanile, è rimasta la sala al pianterreno dove le nutrici allattavano i bambini. Fuori, sulla strada, c’è ancora il piccolo vano attraverso il quale veniva deposto, verosimilmente di notte, il neonato. Ma non più esiste la ruota, dal 1875. Quando in Italia fu abolita questa pratica non mai autorizzata da alcuna legge e soltanto in uso a scopo di carità, in attesa che altra carità privata allevasse quelli che a Napoli vennero sempre chiamati i “figli della Madonna”.
Perché l’abbandono è un vecchio, nuovo, peggior crimine
In effetti, da quel tempo che il secolo si rinnovava molti progressi si sono fatti nell’assistenza pubblica. Ma se oggi, dopo un secolo e mezzo, il problema dell’infanzia abbandonata si ripresenta in forme molto più crudeli e anzi abiette, non sarebbe il caso di ripristinare – e qui la provocazione è massimamente palese, anche se qualche ospedale l’ha realmente fatto -, magari in forma moderna ed evoluta, l’arcaico sistema della ruota? “Ogni crimine è peccato, – scrive nei Moralia san Gregorio Magno – ma non ogni peccato è crimine. Abbiamo appresso da considerare in questa distinzion di peccati, e di crimini, che alcuni peccati imbrattano l’anima, ma li crimini l’uccidono”. Non so se questo pensiero valga anche per coloro che abbandonano un bambino, uccidendolo moralmente e a volte fisicamente, commettendo il peggior crimine. Questi abietti assassini avranno mai un’anima?