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Gianluca Vacchi e Alessandro Borghese: così finisce l’era del Dogui. L’Italia è in rehab dal workaholism

Iva l’Italia!

Avatar di Marco Zoccali

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Il Dogui

Non è un paese per Vacchi

Lavoro guadagno, pago pretendo, diceva il “Dogui” in una delle sue più celebri interpretazioni. E cosa simile dice (gli audio diffusi sono inequivocabili) Gianluca Vacchi, quando si lascia andare ai suoi frustrati commenti per le dimenticanze del personale domestico. La differenza, fondamentale, è che qui non si tratta più di finzione scenica, di un immaginario e stereotipico Commendator Zampetti, tutto lavoro e ostentazione, bensì di un realissimo Vacchi in carne ed ossa, di rapporti di lavoro concreti e sintomatici di mentalità soggiacenti tutt’altro che cinematografiche.

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L’Italia in Borghese: dove il lavoro c’è, ma non si vede

L’ironica e dissacrante rappresentazione del workaholism anni ’80 è diventata realtà, nei panni di imprenditori/influencer che, vista la loro smania di appariscenza social, la rendono estremamente visibile. Sia chiaro, Gianluca Vacchi ha pronunciato frasi che innumerevoli lavoratori dipendenti si sono sentiti rivolgere chissà quante volte nel corso delle loro esperienze professionali e ha mostrato atteggiamenti che avranno fatto venire in mente i propri “capi” a centinaia di migliaia di persone.

Lo stesso discorso vale per Alessandro Borghese, altro imprenditore/celebrità finito nelle ultime settimane al centro di polemiche dopo le sue affermazioni sulla difficoltà a reperire personale per i suoi locali. Nulla di nuovo, da tempo tali dinamiche vivono nel substrato lavorativo italiano, ma oggi sembra essere avvenuta una rivoluzionaria trasformazione nella percezione di tali espressioni fatte da voci imprenditoriali.

Alessandro Borghese Verissimo

Il lavoro è morto. Lunga vita al lavoro!

L’Italia, in gran parte, non ci sta più. A torto o ragione, emergono proteste come il #VacchiOut, come la critica a Borghese. Il mito della schiena spezzata, si dice sia finito. Il lavoro ad ogni costo non è più al centro della scala valoriale delle nuove generazioni. Il lavoro come religione è in piena secolarizzazione. L’Italia sembra voler entrare in rehab da workaholism, volendo usare termini che universalizzano e mascherano da sindrome qualsiasi questione.

Ora, chi vede giusto tra chi pretende che il lavoro (degli altri) sia slegato da compresenti attenzioni relazionali, emotive e contrattuali, e chi ritiene che il gioco attuale non valga la pena di alzarsi dal divano, non si può stabilire una volta per tutte. Non tutto il mondo è uguale, non tutti i posti di lavoro sono uguali, ognuno può solo parlare per sé. Però, che entrambe le parti si rendano conto di alcune cose appare necessario.

Gianluca Vacchi Instagram

Il sogno Dubai

Da un lato, quello di alcuni datori di lavoro, è doveroso comprendere che tutti vogliono vivere della loro professione. Tutti vogliono che un impegno professionale sia sufficiente alla sussistenza. Dall’altro, è anche fondamentale capire che il lavoro è un mercato, che non vive di leggi umanitarie, ma soprattutto economiche. La moneta è fatta di fatica e di capacità, di valori aggiunti e conoscenze. Talvolta è necessario attraversare periodi di transizione non ottimali che aumentino la propria spendibilità futura in tale mercato. Restano altrimenti numerose opzioni, tipo mangiare merda a Dubai. Quello si dice paghi bene. E se mangiare merda è una scelta, alla fine sono tutti contenti, pare.

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