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Un lapsus manzoniano
Consapevolezza o svista? Volontà o lapsus del Manzoni?
Quante volte, nell’uso quotidiano, sentiamo esclamare la parola lapsus, spesso accompagnata da altri termini. Il termine lapsus (dal latino labi, cioè scivolare) indica vari tipi di errore causati, secondo la teoria psicoanalitica di Sigmund Freud, da motivi inconsci che rivelano l’esistenza di un impulso in contrasto con ciò che si sarebbe voluto dire o scrivere; da qui la locuzione lapsus freudiano. Si possono avere anche “scivoloni” meno psicologici, quali il lapsus linguae, cioè errore nel parlare, e il lapsus calami, cioè sbagli di scrittura, i cui autori spesso tendono a giustificare come semplici distrazioni.
Ogni tanto se ne trova qualcuno di simpatico anche in letteratura e poesia.
Anche Manzoni si è concesso i suoi lapsus
All’interno dei Promessi sposi, la famiglia del sarto fa la sua comparsa nel capitolo XXIV, a seguito della liberazione di Lucia, e del monologo di don Abbondio sulla carità all’ingrosso del cardinal Borromeo: agapico e domestico, il sipario è aperto da una buona donna ed un cappone, che intanto sta cuocendo per il pranzo con Lucia, nel giorno in cui Federigo – un signore così caritatevole – viene a fare visita al paese.
Quella del sarto è l’unica famiglia che appare veramente felice nei Promessi sposi, già costituita molto prima che la coppia protagonista possa avverare il suo sogno matrimoniale: sembra anzi che l’intenzione del narratore sia stata di ritrarre, in veste finalmente festiva, ciò che alle soglie del romanzo era stata la magra scena della “casetta d’un certo Tonio“, senz’altro intima e serena, ma priva di “quell’allegria che la vista del desinare suol pur dare a chi se l’è meritato con fatica“. D’altro canto, l’indecisione narrante su quei “tre o quattro ragazzetti” di Tonio potrebbe pure già richiamare l’accorto lettore al noto “lapsus” manzoniano a proposito del numero di figlioli posseduti dal suo personaggio forse più oleograficamente idillico.
E allora vediamo un po’ com’erano combinati questi tre figliuoli del sarto.
Gli “incerti” figli del sarto dei Promessi Sposi
Nel capitolo XXIV, che è quello della visita del cardinal Borromeo, e del famoso e insulso “Si figuri” del sarto, il Manzoni dice che erano due bambinette e un fanciullo; nel capitolo XXIX dice che erano due ragazzi e una bambina.
Se i nostri antenati non avessero visto il Manzoni a Milano, a Torino e a Firenze sano e vegeto, e del suo vivere e scrivere noi non conoscessimo ogni particolare anche minimo, e fosse per esempio uno scrittore greco o latino, la soluzione sarebbe semplice: direbbero che il capitolo XXIX non è del medesimo scrittore che il capitolo XXIV; oppure che ci fu un correttore, un interpolatore, un guastatore, e altre affermazioni e ipotesi simili. Ma col Manzoni tutto questo sembra un po’ difficile. Dunque, una svista, una dimenticanza, una distrazione: non resta altro. Può essere. Se non che il Manzoni anche sappiamo che attento scrittore e lettore e correttore fu: fece e rifece, scrisse e riscrisse, soprattutto corresse e ricorresse il suo romanzo più volte, manoscritto, in bozze, persino in fogli di stampa già stampati e tirati e licenziati. Anche l’ipotesi della svista o distrazione del tutto non soddisfa.
Due femmine e un maschio o due maschi e una femmina, per esigenze di narrazione
Immergiamoci beatamente nel testo e andiamo a curiosare. Nel capitolo XXIV, che siano “due bambinette e un fanciullo” gran necessità non c’è. Una bambina gli basta, la maggiore delle due, perché il sarto, a un momento del desinare, le affidi un piatto di vivande e un fiaschetto di vino da portare a una povera vedova che abitava presso casa sua.
In effetti che siano due bambine e un bambino, in questo capitolo, lo si riscontra anche in due vignette del Gonin. Inoltre non si può negare che a quel chiacchierare intorno alla tavola, interrogare, interrompere, il sarto esclama per ben tre volte un perentorio “Sta zitta” riferito all’una o all’altra delle due chiacchierine; “sta zitto” al bambino, una volta sola. Probabilmente ritornati i figlioli dalla chiesa, due bambine gli servirono meglio per l’intera scena e immaginarla così gli fu più facile e naturale.
Il capitolo XXIX è quello in cui don Abbondio e Perpetua con Agnese scappano dal paese per andare a rifugiarsi nel castello dell’Innominato. E nel viaggio, per suggerimento di Agnese, si fermano a salutare la famiglia del sarto. È l’ora del desinare; e alla buona mettono insieme, il sarto quello che aveva in casa, i fuggiaschi quello che si erano portato.
Qui il Manzoni ha proprio bisogno di due maschietti, i quali vadano nell’orto l’uno a montare sul fico, l’altro a scrollare il pesco; e intanto la bimba vada in un angolo della casa a prendere quattro castagne primaticce da arrostire. È chiaro che sono circostanze diverse; e le due situazioni portarono a un accomodamento differente e a una ineguale distribuzione delle persone.
Lapsus manzoniano o irriverente consapevolezza?
Che proprio il Manzoni della incongruenza non si sia avveduto? L’allegria della convivialità del sarto dovè forse sopraffare anche don Lisander nella scrittura, se non si accorse che i conti dello “stato di famiglia” del sarto non tornavano, essendovi, rispetto al cap. XXIV, un ragazzo in più ed una bambina in meno? Non se ne avvide quando scrisse, preso ogni volta dalla sua immaginazione, ma certamente se ne avvide dopo. E correggere gli seppe male. Sorrise, e lasciò stare cosi come dové sorridere e lasciare stare il Carducci, a proposito de La Canzone di Legnano, quando gli dissero che il Resegone è a nord di Milano e non a ponente. E del sorriso di Manzoni c’è una traccia qui stesso: quando dice del sarto che ordinò alla bambina di andare a diricciar le castagne, aggiunge, rivolgendosi al lettore: “Quella che aveva portato quel boccone a Maria vedova; chi sa se ve ne rammentate piu!“.
C’è chi ha commentato criticamente l’episodio come una sorta di “consapevolezza del vistoso cedimento operato nella tessitura realistica del racconto“; altri vi hanno scorto un tratto di quella “poesia senza verità“, di fronte a cui Manzoni, accortosi in seguito della svista, non poté far altro che sorriderne. A mio avviso, la traccia di tale sorriso farebbe capolino, quasi a titolo di simpatica excusatio, proprio nell’esclamativa rivolta al lettore, fedele “spalla” presente nel romanzo.
Mi piace ritornare un istante all’orticello del sarto. Il quale non era, a quel che parrebbe, un orto specializzato o sperimentale; e che insieme ci fossero, in autunno un po’ avanzato, e già al tempo delle castagne, fichi da cogliere e pesche da scrollare, fa specie (come fa specie quello scrollare le pesche come fossero noci); e anche più, direi, di quel “mazzolin di rose e di viole” del Leopardi che tanto diede da ridire a Giovanni Pascoli.
Un lapsus, una distrazione, una dimenticanza, o forse un simpatico scherzo di Manzoni ad uno di quei suoi venticinque lettori?
Non lo sapremo mai, ma di una cosa siamo certi: la poesia e la letteratura non sono nude enunciazioni di fatti precisi, bensì sogni fatti di parole.