TV e SPETTACOLO
Il Festival di Sanremo, un tempo solo “della canzone italiana”, ora… “di tutto di più”
Perché Sanremo è Sanremo, e ci conviene che sia così
Festival di Sanremo: l’emblema di un intero Paese
Se vuoi capire il Paese, c’è poco da fare: devi guardare Sanremo. Lo impongono i numeri incontrovertibili dell’indice di ascolto, di fedeltà, di gradimento, di share. Ci siamo. Ancora qualche ora e si aprirà il Festival dell’economia, del caos mediatico e un po’ anche della canzone. Iniziato in sordina nel lontano 1951, in oltre 70 anni si è trasformato in una macchina commerciale perfetta. Tra scandali, polemiche e musica. Sono in molti a riflettere che i festival siano manifestazioni caratteristiche dei tempi che corrono, tempi in cui, tra un anno e l’altro, pare che non ci siano soltanto 365 giorni di distanza, bensì lustri. Di certo anni luce sono ormai trascorsi dai primi decenni di vita della manifestazione musicale di Sanremo, dove veniva fuori la vera essenza embrionale di un concorso canoro, l’esaltazione della canzone italiana attraverso sfide memorabili degli interpreti, come del resto il titolo chiaramente precisava: Festival della canzone italiana. E di canzoni scolpite nella musica italiana a Sanremo ne sono nate tante.
Il Festival della “grande evasione”
Qualcuno nel dopoguerra definì il Festival di Sanremo “la grande evasione”: la colonna sonora di un’Italia canterina che si affacciava alla modernità, con il sole in fronte e la voglia di fischiettare. Dalla prima edizione ha fatto molta strada, cambiato location, pubblico e soprattutto format. Fino a diventare un prodotto commerciale da milioni di euro, odiosamato e sempre discusso. Eppure in origine nessuno lo prese davvero sul serio. Probabilmente, tenendo a mente il significato della parola di ascendenza latina, che descriveva semplicemente una festa popolare con musica e danze. La prima edizione si tenne nel Salone delle feste del Casinò Municipale di Sanremo: il pubblico era seduto intorno a tavolini da vecchio café chantant e mentre i cantanti si esibivano, loro cenavano, tra l’andirivieni dei camerieri. Fino a qualche anno fa l’ansia dell’inizio del Festival era corredata da dubbi e incertezze, tutti incentrati sulla gara e sulla regolarità della stessa. Si temeva che prima ancora di aprire il sipario, prima che la commissione esaminatrice si riuniva, prima della pubblicazione del programma, tutto era già noto. Anche il nome forse di coloro che spesse volte avevano soltanto il fumo del premio, senza l’arrosto dei soldi. Si viveva palpabile un tifo quasi sportivo per il proprio beniamino, difendendolo a spada tratta, anche nelle peggiori esibizioni, causa laringite o nervosismi personali. Si litigava, amichevolmente, discutendo sulla poca garanzia delle buste chiuse contenenti i nomi dei vincitori. Ma era tutto emozionante e quella emozione era gratuita e vera.
Era simpatica anche la circostanza in cui i giurati, di cui, certe volte, facevano parte veri cultori di musica – e che avrebbero potuto almeno in quel caso serbare integro il loro rispetto per l’arte, senza lasciarsi avvincere dalla rete di interessi e passioni – imprimevano il marchio della celebrità anche su pappardelle musicali e pseudo poetiche, che ci affliggevano per qualche mese e che poi fortunati noi, andavano a naufragare lontano nel mare dell’oblio. Spesso oggi ci si concentra sul contorno e non si analizza quello che è realmente il cuore pulsante del Festival di Sanremo, vale a dire la musica. Di canzoni nella città dei fiori ne sono passate moltissime di belle, alcune alquanto brutte, tante le ricordiamo e di altre nemmeno sappiamo della loro esistenza, ma hanno tutte un unico denominatore comune: raccontano una storia. A volte non lo teniamo in considerazione, ma dietro un brano c’è un uomo, un artista che racconta il suo dolore, la sua gioia, il colore della sua anima. Da tempo ormai, tra una cosa e l’altra, una ospitata straniera e l’altra nostrana, si ascolta una canzone, presentata da una miriade di annunciatori. Ogni rigo della cartellina di scena viene letto da un soggetto diverso, a mo’ addestramento per la lettura tra i banchi di scuola elementare. Tanto per riempire il più possibile il contenitore di quantità, dimenticando la leggerezza e l’eleganza della qualità. Ma non bastava un solo presentatore, ausiliato attivamente da una bella e fondamentale presenza femminile? O viceversa, cambiando l’ordine dei sessi la sostanza non cambia.
Festival scialuppa nel naufragio universale
Molti si vergognano di ammetterlo, ma sono lì incollati al televisore per partecipare almeno furtivamente a questo appuntamento corale, che si ripete da oltre 70 anni continuando a godere di ottima salute e a procedere imperterrito, mentre il Paese naufraga nelle incertezze, l’Europa dell’Est è percorsa da venti di guerra, i migranti muoiono nelle stesse acque che fanno da sfondo alla manifestazione. In questo naufragio universale, un italiano su cinque si aggrappa come e più di prima alla scialuppa del rito popolare sanremese che, con la scusa di celebrare la canzone italiana gli regala qualche ora di distrazione, confermandosi ultimo bastione di una cultura nazionalpopolare che in Italia esiste e resiste. Tutto ciò nonostante i pochi intellettuali imbarazzati che tentano di spiegarla o contrastarla e i molti inviati speciali che provano a codificarla e descriverla, assegnandole un posto nel tempio delle cose che contano. Nella perpetua fiera sanremese – e qui grandi sociologi ci vengono in aiuto – non è più ahimè soltanto la musica che sollecita le emozioni e il pubblico, né sono i testi delle canzoni, né le esibizioni dei singoli cantautori, né le scenografie sobrie e teatrali, o fosforescenti e discotecare, né i presentatori, sempre più spesso pseudo attori, prevedibili nei volti, nei gesti, negli abiti e nelle battute, né gli ospiti tirati fuori per l’occasione dall’archivio del modernariato mondano. Sanremo è tutto questo messo insieme, in modo da fare sistema. Un sistema così incredibile che ogni volta sembra irripetibile e tuttavia annualmente si ripete con la stessa puntualità della notte di San Silvestro. In questa nostra società contemporanea, guai quindi se non ci fosse; verrebbe sostituito immediatamente da un “qualcos’altro” che stento a immaginare, ma che non oso dire.